L’allarme dell’Unhcr: “Otto migranti su dieci riportati indietro nei lager libici”

di ALESSANDRA ZINITI

L’85 per cento di chi parte dalla Libia viene intercettato dalla Guardia costiera e riportato indietro. Rinchiuso nelle carceri in condizioni disumane, spesso senza acqua né cibo per giorni, a rischio di epidemia. È così da quando l’Italia ha chiuso i suoi porti. Più di quindicimila persone che, dopo mesi di detenzione, finiscono con l’essere rimesse in mano ai loro aguzzini e naturalmente ritentano la traversata pagando di nuovo i trafficanti e alimentando all’infinito un business che adesso, per reclutare nuovi clienti nei paesi d’origine, si nutre anche di “offerte speciali” per chi, naturalmente, non ha immediata disponibilità del denaro richiesto.

“Parti ora e paghi dopo”, “Viaggia ora gratis e lavori quando arrivi in Libia”, “Porta tre amici paganti e viaggi gratis”, “Riunisci cinque persone, viaggio gratis per tutti e lavoro all’arrivo”. Non è vero che con i porti chiusi e con la stretta sulle Ong si parte di meno dalle coste africane e, soprattutto, non è vero che si muore di meno. Né a mare né a terra, che sia nel deserto e all’interno dei centri di detenzione libici (dove nessuno sa quante persone perdono la vita ogni giorno), o che sia sulle strade di montagna che hanno visto una grande ripresa dei flussi migratori. Sei morti al giorni nel mar Mediterraneo, un numero che, seppure diminuito in termini assoluti (2.275 contro i 3.139 del 2017) è più che raddoppiato in termini percentuale con una vittima ogni 14 persone che partono e la conferma della rotta dalla Libia all’Europa come la più pericolosa in assoluto. E con 136 migranti (quasi il doppio dell’anno scorso) morti sulle rotte terrestri, sul fiume Evros tra Turchia e Grecia, alla frontiera tra Croazia e Slovenia, sui sentieri delle Alpi tra Italia e Francia. 

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