Misure economiche bocciate dal 54%: non aiutano la crescita
Nel sondaggio di fine settembre «Quota 100» risultava apprezzata dal 55% degli italiani e il reddito di cittadinanza, pur avendo più detrattori che sostenitori, veniva giudicato positivamente dal 44%. Oggi la riforma delle pensioni polarizza maggiormente le opinioni (47% i giudizi positivi e 45% i negativi) e fa registrare un aumento di coloro che esprimono un parere negativo, aggiungendo ai detrattori iniziali coloro che si mostrano delusi per il provvedimento rispetto alle aspettative suscitate. Quattro elettori su cinque della maggioranza si dichiarano soddisfatti, come pure il 56% degli altri partiti di centrodestra, mentre nel centrosinistra il 18% è a favore e il 76% contro.
Il reddito di cittadinanza continua a ottenere più giudizi negativi (54%) che positivi (40%); il consenso più elevato si registra tra i pentastellati e, sia pure con valori più contenuti, tra i leghisti (56%). Ma ottiene un consenso tutt’altro che trascurabile tra gli elettori dell’opposizione di centrodestra (33%) e di centrosinistra (20%).
Anche il «decreto dignità» divide il Paese (48% i pareri negativi, 40% quelli favorevoli), con accentuazioni tra i diversi elettorati analoghe a quelle rilevate per il reddito di cittadinanza.
In generale l’operato del governo in materia economica non lascia presagire un miglioramento complessivo nella maggioranza dei cittadini. Infatti, solo il 33% ritiene che l’esecutivo stia favorendo la crescita (il 54% è convinto del contrario), il 32% è del parere che contribuisca a creare nuovi posti di lavoro (contro il 53%) e il 37% pensa che agisca positivamente per la tenuta dei conti pubblici (contro il 48%).
E riguardo a quella che da molto tempo rappresenta la priorità degli italiani, cioè l’occupazione, il 61% auspica la riduzione delle tasse per le imprese e incentivi all’assunzione, mentre il 26% pensa che gli imprenditori dovrebbero mostrarsi disponibili ad assumere anche a costo di ridurre i loro profitti per un certo periodo.
Insomma, il quadro macroeconomico non è positivo, i pronostici dei cittadini su crescita, lavoro e conti pubblici non sono improntati all’ottimismo e i provvedimenti su pensioni, lavoro e reddito di cittadinanza dividono le opinioni.
Alla luce di questi dati ci si potrebbe aspettare un calo di consenso per il governo, mentre non è affatto così: i giudizi positivi si attestano al 54% (stessa percentuale di fine dicembre), quelli negativi passano dal 36% al 37% e l’indice di gradimento cala di un punto (da 60 a 59). È interessante sottolineare la sintonia con l’esecutivo di due terzi degli elettori di opposizione del centrodestra (63%), e di un quarto (24%) di quelli di centrosinistra.
Sono diversi gli aspetti che spiegano queste incongruenze nell’opinione pubblica: innanzitutto, questo è un governo che, agli occhi del 56% degli italiani, è capace di rispettare il programma che si è dato, giudizio condiviso dalla quasi totalità degli elettori della maggioranza ma anche dal 64% di quelli del centrodestra e dal 36% del centrosinistra.
In secondo luogo, le tensioni all’interno della maggioranza non sembrano intaccare più di tanto i giudizi sul grado di intesa tra le due forze di governo: il 51% ritiene il governo coeso, con punte più elevate tra i pentastellati (92%) rispetto ai leghisti (79%).
Infine, continua a prevalere l’immagine di un governo che pur tra mille difficoltà sta dalla parte dei cittadini e, in tal senso, la semplificazione del linguaggio, i toni e lo stile comunicativo inducono la gran parte degli italiani a identificarsi con i leader della maggioranza, Salvini in primis, e contribuiscono a ridurre la distanza tra élite e popolo. La riprovazione e le alzate di sopracciglio, che pure non mancano, contribuiscono a radicalizzare le posizioni.
In questa epoca di cambiamento le opinioni dei cittadini non procedono per linee rette, e immaginare che siano basate solo sulla razionalità, su una sorta di bilancio costi-benefici, significa guardare al presente con le lenti di un passato che sembra difficile possa tornare. Oggi è più premiante che il leader sia «uno di noi».
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