D’accordo solo nel fare debito

Augusto Minzolini

A volte lo scontro rasenta il ridicolo, come sulla Tav: Giggino Di Maio dice «mai» perché non è stato fatto neppure un «buco», mentre Matteo Salvini promette il «sì» mentre visita una galleria di sette chilometri, parte integrante dell’opera invisa ai grillini.

In altre occasioni il braccio di ferro se ne infischia del «dramma», come nel caso del Venezuela: in un Paese pieno di oriundi italiani, il nostro governo, unico in Europa, ha assunto una posizione pilatesca tra un dittatore come Maduro e il candidato degli Stati Uniti per riportare la democrazia, Guaidó, in ossequio a quella parodia della poetica guevarista che ha il suo campione in Di Battista. In altre ancora, il pomo della discordia è quello di sempre, quello che ha movimentato settant’anni di governi repubblicani che, a quanto pare, non erano per nulla diversi dal governo del «cambiamento»: se Bettino Craxi e Ciriaco De Mita litigarono per Beppe Grillo in tv (al profeta 5stelle fischieranno le orecchie), oggi Di Maio dà i calci negli stinchi a Salvini perché non vuole Maria Giovanna Maglie su Raiuno. I corsi e ricorsi di Giambattista Vico in sedicesimo. Andrebbe scomodato anche Tomasi di Lampedusa per la celebre frase del Gattopardo («tutto cambi perché nulla cambi») per affrontare il tema della giustizia: ieri il Suslov del movimento, Marco Travaglio, ha dedicato un numero monografico del Fatto alla battaglia per portare sul banco degli imputati il vicepremier leghista per il sequestro degli immigrati sulla Diciotti. Inutile aggiungere che nel gergo «giustizialista» processare equivale a mandare in galera.

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