La deriva non vista del Paese

Ad esempio l’idea che esistano micidiali scie chimiche rilasciate dagli aerei, che i vaccini siano pericolosi e inutili, che i migranti portino in Italia malattie spaventose, che i musulmani presenti in Italia ammontino a non so quanti milioni, e altre falsità o idiozie simili sono state certamente e spregiudicatamente utilizzate dalla politica (di nuovo: più che altro dai grillini). Ma sono nate altrove. E sono condivise da moltissima gente, indipendentemente da Di Maio o Di Battista. I quali se ne sono fatti portavoce, io credo, non solo e non tanto per calcolo politico bensì per un’altra ragione: perché alla fine la cultura di entrambi è la stessa della gente che crede in quelle sciocchezze. O meglio, il più delle volte non sa neppure se ci crede realmente, non sa se è proprio vero, ma comunque si sente autorizzata a parlare lo stesso, a parlarne come se fosse vero. Tanto che importa?

Sicché in ultima analisi il dato veramente preoccupante è questo: in Italia è sempre più raro che qualcuno si senta responsabile di alcunché. Sempre più va prendendo piede un’irresponsabilità sociale di fondo che prende innanzi tutto una veste diciamo così intellettual-discorsiva. Si può parlare a vanvera di qualsiasi argomento, tutti si sentono autorizzati a dire la propria su qualunque cosa senza pensarci due volte, non ci sono più esperti di nulla (se non di cucina: solo i cuochi sono ormai considerati degli autentici Soloni). È questa vastissima area di irresponsabilità socio-culturale che è andata via crescendo il vero retroterra di quella che appare l’irresponsabile superficialità di tanti discorsi politici. Che differenza c’è alla fin fine, infatti, tra Di Battista che dà del golpista a Obama, il ministro che si dice certo che domani vedremo il Pil risalire alle stelle, e chi è sicuro che dal cancro si possa guarire perfettamente con una dieta adatta?

Il fenomeno di tale irresponsabilità è ancora più pervadente, in realtà. Da tempo, infatti, esso si manifesta oltre che nell’ambito delle parole e delle idee in quello dei comportamenti. Specie dei comportamenti giovanili, con lo scoppio sempre più frequente di una violenza gratuita e inconsapevole di se stessa. Un quattordicenne e un sedicenne che danno fuoco a un clochard, una banda di giovanissimi che a Como sconvolgono il centro della città con una serie di rapine e aggressioni feroci; e però i loro genitori, i «grandi», perlopiù sempre inclini a un’indulgenza assolutoria — «E via, che sarà mai, che avranno fatto poi di così grave?» — non essendo più neppure loro in grado di capire il significato e la portata delle cose. È lo specchio di una società che sta diventando nel suo complesso incapace di pesare le idee e le persone, di misurare le differenze: tra i fatti e le fantasie, tra chi ragiona e chi straparla, tra chi sa e chi non sa, alla fine tra il bene e il male. Una società che appena può ama sempre più spesso prendersi una vacanza dalla realtà per abbandonarsi all’esercizio di una irresponsabilità, resa stolidamente sicura di sé dall’impunità che le assicura la forza del numero.

Ma se oggi l’Italia è questa, non è per un caso. È perché negli anni non ci siamo accorti che stavamo diventando un Paese disarticolato e invertebrato, un organismo privo di qualunque centro d’ispirazione ideale come di qualunque istanza di controllo culturale. Le nostre sciagurate vicende interne, i nostri errori e le nostre insufficienze, hanno fatto sì che forse in nessun altro Paese d’Europa come da noi abbia messo radici un pregiudizio democraticistico ostile al principio d’autorità. Cioè un principio che, come si capisce, è essenziale non solo per l’esistenza del centro e dell’istanza di cui sopra, ma ancora di più perché esistano delle élite. Non possono esserci élite dove lo spirito pubblico non è pronto a riconoscere il peso di alcuna autorità.

Per più aspetti il problema dell’Italia di questo inizio secolo è anche, nella sua essenza, un problema di assenza di autorità. Di un’autorità socialmente riconosciuta e policentrica, come si conviene ad una società democratica, ma comunque di un’autorità. E invece non siamo disposti a riconoscere l’autorità più di niente e di nessuno. Non esiste più alcuna autorità a cui il Paese dia la sua fiducia, né esiste più — in un perverso quanto ovvio circolo vizioso — alcuna sede disposta a pensarsi fino in fondo come depositaria di una qualche autorità. Da noi non hanno ormai più nessuna vera autorità la famiglia, la scuola, la cultura, la stampa, la politica, la Chiesa, la Banca d’Italia, le istituzioni dello Stato a cominciare dalla magistratura (fanno ancora una parziale eccezione la Presidenza della Repubblica e l’Arma dei carabinieri, sempre che quest’ultima sappia fare al suo interno la pulizia che recenti vicende indicano come necessaria). Dove per autorità intendo quella che s’impone di per sé stessa, per la propria intrinseca autorevolezza, serietà, coerenza, caratteristiche capaci in quanto tali di generare consenso e dettare idee e comportamenti. Senza la quale autorità si diventa per l’appunto ciò che noi oggi siamo: un Paese senza guida in cui ognuno può dire e credere ciò che vuole, spesso anche farlo, nella massima irresponsabilità e illudendosi di non pagare mai pegno. E invece il pegno si paga sempre: e infatti noi lo stiamo già pagando.

CORRIERE.IT

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