Il governo e i giochi di potere

La maggioranza politica è fragile. Quella numerica invece resiste. Le truppe sono relativamente compatte e disciplinate. Ai leader devono tutto. Gli scenari su quello che potrebbe accadere dopo le elezioni europee del prossimo maggio sono i più diversi. Specialmente se la Lega dovesse progredire a fronte di un arretramento grillino. L’eventuale tentazione di Salvini di andare al voto anticipato, riunendo un centrodestra, mai del tutto abbandonato, non dispiacerebbe ai Popolari europei che, comunque vadano le cose, saranno decisivi sui futuri assetti delle istituzioni comunitarie. Ma vi sono alcuni formidabili collanti sui quali la maggioranza gialloverde può fare affidamento. Il primo è il dividendo di potere nelle nomine. Al quale ci si abitua tanto più velocemente quanto più lungo è stato il digiuno. Un compromesso spartitorio si trova sempre. Anche sdoppiando le caselle. Come stanno tentando di fare con le nomine di Paolo Savona e Marcello Minenna alla Consob, la Commissione per le società e la Borsa. O con la decisione di reintrodurre il consiglio di amministrazione per la successione di Tito Boeri all’Inps. Nel caso di Savona la polemica sulle incompatibilità è rovente. Indiscusso il valore accademico della persona. Non si può certo dire però che la sua nomina rappresenti un segnale di rinnovamento e, soprattutto, di ringiovanimento dell’autorità di vigilanza. L’Italia è un Paese di vivace e resistente gerontocrazia. Conta l’esercizio del potere, la logica spartitoria. Quella che un tempo si chiamava, con il termine coniato da Alberto Ronchey, lottizzazione.

L’altro straordinario collante è la spesa pubblica. L’illusione che ci si possa espandere scommettendo su fantomatici moltiplicatori del reddito. Sul fare più deficit non litiga nessuno. La manovra metterà sulle spalle delle prossime generazioni, tra reddito di cittadinanza e pensioni anticipate, un centinaio di miliardi in più di debito. Ma è il caso di dividerci per così poco? Non ci si accapiglia nemmeno se, con le soglie della flat tax, si incoraggiano i pagamenti in nero che ancora qualcuno ritiene una espressione della libertà individuale. Non ci si preoccupa dell’effetto dei condoni sul gettito fiscale e sulla lotta all’evasione. E, per inciso, sul già modesto senso civico. Non si sa nulla, per esempio, sull’esito delle rottamazioni. Uno strano silenzio.

Accanto a questi due efficaci collanti, che tennero insieme nelle precedenti legislature altre volubili maggioranze, c’è un adesivo insperato. Imprevedibile. In particolare per coloro che al governo agitano, un giorno sì e l’altro pure, l’opposizione dell’establishment, dei salotti della finanza. Ed è la rapidità con cui la classe dirigente si acconcia alle nuove dinamiche del potere politico. Non solo quella pubblica, ma anche quella privata. Non si disdegna di cercare un contatto con Davide Casaleggio salvo poi lamentarsi per la scarsa trasparenza della governance Cinque Stelle e per il futuro della democrazia rappresentativa. Si cercano le più diverse entrature per arrivare a Salvini che «è uno che capisce al volo e decide». Si rivalutano le virtù amministrative che certo non mancano nella parte leghista. Si scoprono personaggi «sorprendentemente moderati» o «dopotutto competenti». Ci si adegua. Come è sempre avvenuto. Si soccorre il vincitore. Se poi non ha rivali o alternative lo si blandisce, salvo mollarlo al primo refolo di vento contrario. L’importante è il dividendo personale, aziendale o di settore. E al resto? «Non tocca a noi pensarci».

CORRIERE.IT

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