Governo, i leghisti puntano alla rottura prima della nuova Finanziaria

E poco importa ricostruire le ragioni che hanno indotto Di Maio a dire «no» a Signorini, se è vero cioè che il capo dei grillini abbia voluto punirlo perché colpevole di lesa maestà verso i provvedimenti dei Cinquestelle. È il dato politico che colpisce, sta nel siparietto che ha seguito la querelle tra il vice premier e Tria, quando Conte — stranito per la situazione — ha tentato di far da paciere sorridendo: «Siamo qui per cambiare le cose, e per cambiare a volte si va per tentativi». Giorgetti, senza sorridere, ha replicato: «Ah sì? E se scoppia la rivoluzione, che facciamo: andiamo avanti per tentativi?». Non bastassero la gestione della crisi venezuelana e la rottura diplomatica con la Francia, anche questo dialogo smentisce quanto il premier sussurrò alla Merkel: non c’è «mediatore» che possa tenere insieme una coalizione nata per contratto, non c’è spazio per i compromessi se i contraenti non tentano nemmeno di dissimulare le loro divergenze. Lo fanno capire in pubblico e in privato, al punto che un ministro leghista l’altra sera, stremato dal lungo e surreale battibecco, ha imbracciato le carte e ha commentato: «Sarebbe da matti restare con questi matti fino alla prossima Finanziaria». È un’opinione diffusa nella delegazione del Carroccio, che pure attende ordini dal suo «Capitano», infastidito ogni qualvolta sente dire all’altro vice premier che «per il voto al Senato su Salvini il Movimento deciderà dopo la lettura delle carte». Come se le «carte» non le avesse prodotte il governo nella sua collegialità con la «linea dura» decisa sui migranti. Per ora si trattiene. All’esercizio zen è abituata anche il ministro Stefani, che a una settimana dall’«ora X» sull’Autonomia regionale, invita i colleghi grillini a produrre i documenti e cerca di spiegarsi: «Guardate che i nostri governatori altrimenti non ci stanno…». Per la Lega l’affronto equivarrebbe all’autorizzazione a procedere contro Salvini.

Proseguendo nella tattica dei distinguo, prosegue lo scontro sulla Tav, che si arricchisce di un altro pissi-pissi di Palazzo: l’analisi sui costi-benefici sarebbe una foglia di fico, perché il vero problema non verterebbe tanto sull’utilità commerciale dell’opera, bensì sulla potenziale importanza strategica a livello militare della galleria. Altrimenti non si spiegherebbe l’attenzione con cui gli alleati europei e anche quelli oltre oceano seguono il dossier. I misteri e i retropensieri alimentano i reciproci sospetti in un’alleanza dove l’imperativo è marcare l’alleato. Il punto è che la spinta propulsiva del gabinetto Conte si è esaurita, «e l’addio di Savona — dice un ministro leghista — lo testimonia: la carica rivoluzionaria finisce ogni sera quando finiscono i tiggì». Eppure nei sondaggi l’esecutivo tiene, mentre continua a calare il gradimento sui suoi provvedimenti. Può sembrare una contraddizione ma non lo è, se si tiene conto che dalle analisi di ricerca emerge come l’opinione pubblica non trovi oggi un’alternativa di governo valida: esiste insomma una «domanda» che non troverebbe però un’«offerta». E allora si capisce perché i leghisti vorrebbero staccarsi da M5S prima della prossima Finanziaria, che dovrà gestire quello che gli economisti già chiamano «Inferno Duemilaventi». Il Carroccio non intende sacrificare il futuro risultato europeo sull’altare del governo Conte: se manovra lacrime e sangue sarà, meglio gestirla da palazzo Chigi dopo un voto popolare. Certo non è facile, ma questo è l’obiettivo: così Salvini giocherebbe d’anticipo, impedendo che si costruisca un’«offerta» per quella «domanda».

CORRIERE.IT

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