Foibe, la storia utilizzata come un randello nel confronto politico

Nell’argomentare le varie posizioni ci si confrontò del tutto marginalmente con le ricerche degli storici. I sostenitori (il relatore Luciano Magnalbò) del provvedimento citavano un rapporto della Special Intelligence (?) datato 30 novembre 1944 e pubblicato sul Corriere della Sera («Ci viene riferito che in tutto i partigiani jugoslavi hanno gettato parecchie centinaia di persone nelle foibe»). Altri (Piergiorgio Stiffoni) si riferivano genericamente a documenti dell’Oss, dai quali «risultava evidente che gli alleati, americani e inglesi, fin dall’autunno 1944 ebbero notizia delle foibe ma preferirono non intervenire per non irritare Tito che consideravano un alleato sul fronte antinazista». A sostegno degli oppositori c’erano le conclusioni dei lavori della commissione bilaterale italo-slovena e i Quaderni della Resistenza pubblicati dall’Anpi del Friuli-Venezia Giulia. Questo era tutto.

Quanto alla bibliografia, tutti tirarono in ballo gli stessi libri, quelli dello storico Gianni Oliva: mentre Servello ne citava un brano usandolo per denunciare il mito «autoassolutorio» della Resistenza, sul fronte opposto, Vittoria Franco ne utilizzava un’altra frase all’interno di una impegnata perorazione perché le foibe fossero considerate «un fenomeno dovuto sia alla politica di italianizzazione forzata da parte del fascismo, che mirava all’annullamento dell’identità nazionale delle comunità slovene e croate, sia alla politica espansionistica di Tito per annettersi Trieste e il goriziano».

Nell’uso pubblico della storia era così allora ed è così oggi: non tesi che si confrontano sulle fonti e sui documenti, ma argomentazioni che diventano nodosi randelli da brandire contro i propri avversari. E le vicende del passato sono degradate a puri pretesti.

LA STAMPA

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