Soldi, formazione, orari: ecco cosa lega (o fa scappare) gli italiani al posto di lavoro
Detto della supremazia del quantum monetario, una lettura
interessante arriva se si guarda alla seconda voce per importanza, che
risulta essere la “formazione” e la “possibilità di sviluppare la
carriera”: raccoglie quattro risposte su dieci. In questo caso, la
spinta verso il training e lo sviluppo professionale viene in
primis dagli inquadramenti più bassi: per gli operai raccoglie 44
indicazioni su cento, mentre si scende a 27 tra i dirigenti. Si potrebbe
dire che la propensione a migliorare arriva dunque dal basso. Anche la
flessibilità degli orari per salvaguardre l’equilibrio vita/lavoro è una
indicazione forte da parte della classe operaia (34%), che si ritrova
in misura ben minore da parte delle altre figure. Di contro,
l’importanza del “contenuto” del lavoro cresce in proporzione alla
risalita lungo la gerarchia aziendale.
I grandi sconfitti tra i fattori che spingono a cercare impiego altrove
sono l’ambiente “fisico” di lavoro e i premi non monetari, che possono
raggruppare gadget, viaggi, buoni benzina o affini. Poco rilevante anche
la missione dell’azienda, la proposizione sociale dell’organizzazione
per la quale si lavora. Questa ha infatti un valore sempre più basso via
via che si scende nella gerarchia aziendale, un fattore con scarsissimo
impatto sulla decisione di cambiare lavoro: in media meno di 2
lavoratori su 10.
E i motivi per restare
Negli uffici del personale è parimenti importante sapere quali sono le
ragioni che permettono di fidelizzare la propria forza lavoro. In questo
caso, la retribuzione perde d’importanza con meno del 30% delle
indicazioni. Si ampliano le differenze a seconda del ruolo ricoperto
nell’organizzazione ambientale. Operai e impiegati mettono in cima alla
lista le relazioni sul luogo di lavoro (5 su 10). D’altra parte, sono
proprio le categorie che “subiscono” maggiormente le relazioni, i ritmi,
il clima sul posto di lavoro. Infatti quadri e dirigenti mostrano meno
sensibilità a questo aspetto e preferiscono non cambiare se sono
soddisfatti sulla flessibilità dei propri orari (indicati da 4 su 10
circa).
“I contenuti del lavoro per tutte le categorie hanno un impatto
significativo, ma non fortissimo rispetto alla decisione di rimanere in
azienda (1 lavoratore su 3)”, spigano ancora gli esperti del JobPricing.
“Per tutte le categorie la motivazione più bassa in termini di
fidelizzazione al posto di lavoro è quella legata all’incentivazione di
natura collettiva”, che scende particolarmente tra le piccole imprese:
paga il fatto di esser poco gratificante dal punto di vista economico e
legata a logiche di remunerazione “a pioggia” che non premiano il
merito.
Per cosa rinunciare a un mese di stipendio?
Da ultimo, il Salary Satisfaction indaga quali proposte da parte
dell’azienda incontrerebbero l’interesse del lavoratore al punto da
fargli rinunciare a un mese di stipendio. In generale, due dipendenti su
tre sarebbero disposti a fare questo “scambio” ottenendo un altro
genere di compensazione. In cima alla graduatoria delle preferenze torna
il tema della formazione e dello sviluppo professionale, visto in
chiave di possibilità di incremento salariale: sapendo di esser inserito
in un percorso di crescita che porti a un incremento retributivo di
quattro mensilità in tre anni, quasi il 30% dei lavoratori rinuncerebbe
subito al mese di stipendio.
Sì, se in cambio ricevessi un pacchetto di welfare o di benefit personali a mia scelta, per un valore pari ad almeno due mensilità | 7,9% |
Sì, se in cambio ricevessi la possibilità di avere un premio variabile basato su obbiettivi individuali, pari, una volta raggiunto, ad almeno due mensilità | 8,8% |
Sì, se in cambio venisse disegnato per me un percorso di formazione e sviluppo professionale che possa consentirmi di aumentare lo stipendio di almeno 4 mensilità entro 3 anni | 29,6% |
Sì, se in cambio l’azienda investisse su servizi gratuiti per i dipendenti tali da migliorare la mia qualità della vita sul lavoro e/o favorire la conciliazione con la vita privata (mensa, fitness center, asilo aziendale, maggiordomo aziendale, ecc.) | 3,8% |
Sì, se in cambio mi fosse data la possibilità di avere maggiore flessibilità di orari o la possibilità di lavorare da casa almeno 1 gg. alla settimana | 7,9% |
Sì, se in cambio fossi assunto dall’azienda dei “miei sogni” | 6,5% |
Sì, se in cambio fossi assegnato a un lavoro più interessate ed in linea con le mie capacità. | 3,4% |
No, mai | 26,3% |
Gli addetti ai lavori del JobPricing concludono il rapporto sottolineando come i dati confermino “che sempre di più la questione retributiva viene percepita, anche dai lavoratori, in un’ottica ‘globale’, che riconduce ad un modello di policy retributiva sempre meno ‘monetaria’ e sempre più ispirata a criteri che coniughino elementi tangibili e intangibili in modo sempre più personalizzato”. Posizione condivisa da Pietro Valdes, regional managing director di Spring Professional, la società del gruppo Adecco che ha collaborato alla stesura del rapporto: “L’attrazione dei talenti passa inevitabilmente anche da fattori retributivi. Gli elementi che fanno di un’azienda (e anche di un Sistema Paese) un attrattore sono molteplici: l’Italia è il 38° paese nel mondo per capacità di attrarre e coltivare talenti, in calo di due posizioni nella classifica presentata a Davos e dietro a paesi come Lituania, Brunei e Lettonia. Tra i punti di forza del nostro Paese spicca la capacità di fidelizzare i talenti grazie ad un buon Sistema Paese e ad un ottimo livello di qualità della vita ma tra gli aspetti negativi emerge appunto una media piuttosto bassa dei salari, ma anche una bassa penetrazione di investimenti stranieri e una presenza ancora troppo evidente di discriminazioni culturali e di genere”.
REP.IT
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