Il prigioniero Di Maio al bivio: salvare il governo o i 5 Stelle
E, naturalmente, lo stato d’animo dei militanti si trasmette ai dirigenti, aggiungendo confusione a confusione. L’area movimentista di Roberto Fico è in subbuglio. Paola Nugnes addirittura tira in ballo il «Dibba»: «il suo ritorno ha avuto un effetto pessimo sul voto». «Le star – è il sarcasmo di Davide Galantino – andavano bene all’opposizione». Elena Fattori, invece, rilancia il suo j’accuse: «Ci siamo troppo snaturati per seguire Salvini. Ecco i risultati! In più abbiamo scambiato la campagna elettorale per un reality o Amici». Addirittura la candidata grillina nella corsa in Abruzzo, Sara Marcozzi, sposa una tesi assolutoria che si trasforma in un «testacoda» sul piano intellettuale: «Ha perso la democrazia». La verità è che nelle formule rituali di ogni sconfitta e nelle acrobatiche spiegazioni appare e scompare, come un fiume carsico, un elemento che sarà sempre più presente nelle analisi del gruppo dirigente ad ogni scadenza elettorale: come confida il sottosegretario all’economia, Alessio Villarosa, «è la Lega che sta diventando il vero problema».
Era fatale, quasi scontato, che il successo di Salvini e il contemporaneo crollo elettorale dei grillini, in un meccanismo di «causa ed effetto», avrebbe destabilizzato il governo. Tant’è che ieri mattina il leader leghista ha fatto di tutto per rassicurare l’alleato, per garantirgli che non sfrutterà il successo elettorale per rimpasti o altro: una sorta di «state boni» verso i grillini ripetuto all’infinito. Solo che l’atteggiamento del vicepremier del Carroccio è servito a poco, o, addirittura, ha avuto l’effetto contrario. Il voto abruzzese, infatti, ha anticipato un dilemma che cadenzerà la maratona elettorale di primavera (cioè le diverse elezioni regionali) e che dopo le Europee per Giggino Di Maio e il vertice dei 5stelle diventerà ossessivo, un rebus che può essere tradotto in una domanda: salvare il governo o il movimento? Una questione che contrappone l’anima «dorotea» del grillismo, cioè quella votata al governo ad ogni costo, a quella delle origini. Un interrogativo che esplicita la difficoltà del gruppo dirigente ad individuare una risposta comune ad una sconfitta elettorale che, per molti, è il segnale di un ridimensionamento elettorale irreversibile. Un problema irrisolvibile, quasi di natura esistenziale, che a sentire i boatos dei vertici del movimento, lo stesso Di Maio ha sintetizzato in una battuta: «Mi sento prigioniero!».
Già, «prigioniero» tra le esigenze di governo, che la crisi economica renderà sempre più indigeste per i grillini, e la natura stessa del movimento, che è un caleidoscopio di minoranze spesso incompatibili. La vicenda abruzzese è esemplare: le uscite del ministro grillino alla Salute, Giulia Grillo, hanno inimicato al movimento la componente No Vax che nella regione ha un certo seguito; come pure il compromesso sulle trivelle nell’Adriatico non è piaciuto a una parte dell’elettorato grillino in Abruzzo sensibile al tema; per non parlare dei diecimila oriundi italiani tornati dal Venezuela, che hanno giudicato le uscite del «Dibba» filo-Maduro un insulto. Mettere insieme tutto questo con le responsabilità della stanza dei bottoni, è difficile se non impossibile. Si potrebbe parlare di un’inattitudine cronica al governo. Per cui di fronte alla sconfitta elettorale il movimento è inerme, non sa che strada scegliere. C’è un lagnarsi infantile per la sconfitta, che non si traduce in una reazione, in una risposta: «Peccato – è lo sfogo singolare del ministro Toninelli – perché ora non potremo realizzare tante cose che avevamo promesso». L’insuccesso, appunto, può indurre il movimento ad un’involuzione, a rifiutare il pragmatismo a cui era stato obbligato dopo l’approdo al governo. «Non credo – spiega Luca Carabetta, grillino tanto «governativo» da autodefinirsi «democristiano» – che possa essere rimesso in discussione il nostro no al processo contro Salvini. Semmai il problema è più generale: l’elettorato vuole essere rassicurato, spero che la sconfitta non induca qualcuno di noi a prendere un’altra strada».
Quel «noi» e «loro», quel «dualismo» tra le anime del movimento, può essere il prolegomeno di un processo di «scissione». Materia incandescente, che induce lo stesso Salvini alla prudenza. Il «vincitore» vorrebbe preservare l’attuale equilibrio politico, che lo favorisce. Se fosse per lui andrebbe avanti ancora per mesi, rassicurando l’alleato di governo, evitando strappi esagerati. Molto dipenderà dagli alleati con cui ha vinto le elezioni in Abruzzo, cioè dal resto di centrodestra. Se lo asseconderanno, rischieranno anch’essi di essere risucchiati dall’avanzata leghista; o se, invece avranno il coraggio di incalzarlo su temi che potrebbero essere sale sulle «ferite» del movimento grillino e destabilizzanti per il governo: dalla Tav, all’autonomia di Lombardia e Veneto, al reddito di cittadinanza.
La questione riguarda innanzitutto Forza Italia: le elezioni in Abruzzo hanno segnalato che la componente moderata del centrodestra ha ancora un futuro. «Mi aspettavo di più, ci siamo sacrificati per la coalizione»: è quanto ha confidato con un certo rammarico il Cav ai suoi. Ma quel 14% che viene fuori sommando insieme azzurri, ex-dc e liste civiche non è da buttare. La questione, al solito, è la linea. Se ci sarà una politica che metterà in evidenza le contraddizioni della politica economica di questo governo, i temi che contrappongono leghisti e grillini, lo stesso Salvini non avrà vita facile. Anzi, è probabile che dopo le elezioni europee ci sia il collasso della maggioranza gialloverde. Ieri in Veneto il coordinatore di Forza Italia, Davide Bendinelli, ha lanciato una raccolta di firme contro il reddito di cittadinanza e a favore dell’autonomia della Regione: posizioni su cui pure l’elettorato leghista è sensibile. Il 26 febbraio Mariastella Gelmini, farà la stessa cosa. Ed è probabile che la stessa iniziativa sarà lanciata anche nelle restanti regioni del Nord. Questa è la premessa, bisogna vedere se l’eccesso di prudenza e la soggezione verso l’alleato leghista, impediranno che ci sia un seguito. «Equivarrebbe – avverte Bendinelli – ad un disarmo unilaterale».
IL GIORNALE
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