Di Battista e i burattini senza fili
Se però vieni a raccontarmi che i tumori alzano il Pil, adombrando un qualche complotto che non è chiaro nemmanco a te, d’incanto mi sento come Fantozzi alla sfida di biliardo col megadirettore galattico, o come i Washington Generals alle duemillesima sconfitta con gli Harlem Globetrotters. Reagisco. E l’applauso no, non te lo faccio.
Il punto però, proprio come Di Battista, non è politico. È teatrale. Perché quello fa, da sempre, il Che Guevara a geografia variabile, quello per cui i migranti sono da accogliere solo se non rientrano nella giurisdizione di Salvini. O nel suo collegio elettorale.
Per un uomo il cui ego paga un botto di Imu ogni anno, gli applausi non fungono da termometro delle capacità di statista. Sono il fine. Come ben sapeva Casaleggio padre quando lo scelse come ragazzo immagine, sorta di Starsky senza Hutch della coppia con Luigi Di Maio, portavoce, come in un tempo lontano amavano definirsi, di una voce sola. Manipolabile per egolatria (Dibba) o per coscienza dei propri limiti (Di Maio).
Entrambi, sostanzialmente, riconoscenti. Come la maggior parte degli schiacciatasti a Cinque Stelle. E come lo stesso Grillo, che nel movimento ha trovato il suo palcoscenico ultimo. Quello da cui può chiedere – l’ha fatto ieri – la restituzione dei denari donati dai suoi a quegli improvvidi dei terremotati abruzzesi. Che riconoscenti, al voto, non lo sono stati.
È la società dell’avanspettacolo, in cui le tendenze si decidono in base al battimani, o al prossimo like. Giusto ieri, Matteo Salvini ha usato Facebook per condividere la preoccupazione di un sito ultra-bigotto che aveva colto riferimenti al demonio in uno sketch sanremese di Virginia Raffaele. “Il satanismo è un fenomeno preoccupante”, ha scritto Er Divisa, ovviamente senza crederci, esclusivamente per catturare il consenso virtuale che spera di mantenere nelle urne.
Per stavolta l’hanno applaudito. Ma prima o poi anche per lui arriverà una settimana fatta solo #dimartedì.
REP.IT
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