I passi verso una controriforma fiscale
Sostituire al grido d’accusa contro la “perfida Albione”, di fascistissima memoria, con quello contro l’arcigna Unione europea non risolve alcuno dei problemi che ha di fronte il nostro paese.
La critica e la denuncia delle politiche ciecamente rigoriste della Ue va fatta e fino in fondo, così come vanno prese le distanze dalle soluzioni nazionaliste-sovraniste che circolano per il continente e a casa nostra.
È il tema delle prossime elezioni europee. Solo che ad entrambe si dovrebbe avere la capacità di contrapporre un’altra linea di politica economica, ma di questa non si vede neppure l’ombra, dal momento che la manovra economica nel suo complesso è espansiva solo a parole.
Se si volesse puntare a una soluzione keynesiana calata al giorno d’oggi, non si dovrebbe solo pensare a aumentare i consumi ma anche gli investimenti pubblici in settori innovativi che garantiscano lavoro e difesa dell’ambiente, ma li cercherete invano nella manovra governativa.
I due provvedimenti cardine, un reddito di cittadinanza che tale non è, essendo condizionato all’accettazione di collocazioni lavorative persino a termine, e quota 100 che non cancella affatto la “riforma” Fornero, sono peraltro bersagliati dalla guerriglia emendativa che i due contraenti il contratto di governo si fanno a livello parlamentare.
In ogni caso è già previsto che se mancheranno le risorse, un provvedimento si mangerà l’altro e con le cifre previste dall’uno e la riduzione dell’assegno pensionistico dell’altro c’è ben poco da sperare in tema di rilancio della domanda interna.
Ma tutto ciò non è solo frutto di dilettantismo. Chi si limitasse a questo, non coglierebbe la profondità dei processi in atto e li sottovaluterebbe nella loro potenzialmente micidiale portata. La costruzione di una dittatura di maggioranza, quale quella che ci troviamo di fronte almeno nelle ambizioni, è un processo che va condotto a passi rapidi.
Siamo di fronte ad un concreto tentativo di destrutturazione della coesione nazionale, sia sul piano della sua costituzione economica che di quella istituzionale, che peraltro tra loro si incrociano. È come se si avverasse per intero quel quadro che più di venti anni fa tratteggiava Kenichi Ohmae, anche con espliciti riferimenti al nostro Paese, parlando di fine dello Stato-nazione e dell’emergere delle economie e degli “stati” regionali che si collegano tra loro superando i vecchi e obsoleti confini (Kenichi Ohmae “La fine dello Stato-nazione. L’emergere delle economie regionali”, Baldini&Castoldi, 1996).
È un disegno ambizioso che bisogna assolutamente bloccare e che possiamo vedere con una certa chiarezza sul terreno fiscale da un lato e su quello delle autonomie regionali dall’altro. Ma se sulle seconde qualche faro si è acceso, anche grazie a ottimi lavori, quale quello di Gian Carlo Viesti liberamente scaricabile (Gianfranco Viesti “Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale”ebook Laterza 2019), sono partiti appelli e mobilitazioni in particolare dal Sud, sulla controriforma fiscale il velo non è stato ancora alzato. Bisognerebbe farlo prima che sia troppo tardi.
La legge di bilancio non è solo un insieme di norme ad hoc, ma fa trasparire un disegno più di fondo, al di là dei ben dieci condoni che sotto varie forme sono stati introdotti tra decreto fiscale e manovra.
Il bilancio del primo di essi parla di una cancellazione di mini-cartelle per oltre 12 milioni e mezzo di contribuenti, quindi di 32 miliardi giudicati come non più recuperabili. Mentre sono incassabili i voti dei beneficiari.
Ma l’obiettivo assai più ambizioso è quello di portare avanti in modo strisciante ma deciso una integrale controriforma fiscale, che, come sappiamo, è un mantra del neoliberismo. Non si tratta solo della flat tax proposta a puntate. Anche se il primo assaggio è micidiale.
Il regime forfettario potenziato dal 2019 scava un largo vallo tra lavoratori autonomi e dipendenti, tra i titolari di partita Iva tassati con l’Irpef e quelli che si avvantaggeranno della flat tax prevista nella legge di bilancio. I risultati di alcune simulazioni di fonte padronale indicano che un professionista con compensi annui di circa 64mila euro pagherà 10.200 euro di imposte in meno di un lavoratore dipendente con reddito simile e due figli a carico.
Il governo prospetta, dopo i passi negativi già fatti con la manovra, una ipotesi di riforma generale addirittura entro un paio di mesi, comunque prima delle elezioni europee di fine maggio.
Come? Ad oggi non è dato di sapere nella sua interezza, ma le avvisaglie non sono certamente tranquillizzanti.
Enrico De Mita fa notare che quando fu fatta la riforma del 1971 fu varata una commissione di studiosi sotto la guida del professor Cesare Cosciani. Oggi di simili studiosi che collaborino con questo governo non se ne vede neppure l’ombra.
“Il Parlamento al quale è affidata istituzionalmente la materia si occupa di fisco solo per la tutela di interessi corporativi. Ogni anno viene approvata una legge nella quale le cose fiscali sono indicate per previsioni minute senza un quadro di riferimento” .
Ma pare difficile pensare che l’unico difetto stia nella mancanza di organicità, anche se la materia fiscale la richiede per necessità di essenza.
Se invece di inseguire le dichiarazioni sornione (dico, non dico) di qualche sottosegretario – per esempio sulla sparizione degli 80 euro di renziana memoria e la loro sostituzione con un sistema di deduzioni – guardiamo alla legge di bilancio e connessi ne emerge un quadro pessimo.
Con l’accumularsi di altre nuove imposte sostitutive si mina dalle fondamenta l’Irpef. Il nostro sistema fiscale si compone sempre più di tributi su stipendi e pensioni e si basa sempre meno su una imposta generale e progressiva sui redditi delle persone fisiche.
È un cambiamento di paradigma e di sistema che liquida sottotraccia il principio della progressività contenuto nell’articolo 53 della Costituzione e che rischia di consolidarsi alla luce del sole in una prossima iniziativa legislativa governativa.
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