Primarie Pd: l’eroe buono, l’incassatore e il renziano
Il commissario Montalbano contro lo Sceriffo Cattivo. Detto diversamente, con le parole dell’attrice Monica Guerritore, impegnata in teatro con La Giovanna D’Arco e appassionata sostenitrice di Nicola Zingaretti nelle primarie dem: «Per sconfiggere il Male c’è bisogno dell’Eroe».
Non ditemi che la prendo troppo da lontano e che lo
storytelling vi ha stancato. Non spiegatemi che politica e spettacolo
sono su due piani diversi, se avete appena smesso di leggere le
polemiche politiche sulla giuria del festival di Sanremo. In fondo
queste primarie dem, le prime del dopo Renzi, potrebbero anche essere
raccontata così: riuscirà il nostro Eroe a sconfiggere The Shadow, l’Ombra, l’Antagonista?
vedi anche:
Caro Pd, ti scrivo: invia il tuo messaggio al prossimo segretario dem
L’iniziativa è aperta a chi ha votato Pd il 4 marzo, a chi l’ha votato in tempi più lontani ma poi lo ha abbandonato, a chi lo voterebbe se fosse meglio di così e anche a chi non lo vuole votare mai più perché troppo deluso. Lasciate il vostro messaggio (che sarà poi pubblicato sul sito)
Ai
gazebo del 3 marzo si decide se il viaggio dell’Eroe comporti una
radicale rottura con gli ultimi anni o invece un ritorno a un’esperienza
che è stata “mutilata”. L’adesione formale alla proposta di un fronte
europeista avanzata da Calenda non risolve il nodo. Seguiamo allora i
protagonisti tra piazze, treni, convention: «Le forze sovraniste», dice
Zingaretti, «puntano in modo molto sfacciato al logoramento degli
istituti della democrazia. Ma non sono pazzi. Anche in una vicenda
orribile come quella che riguarda i 40 immigrati tenuti a forza su una
nave c’è una logica e noi dobbiamo aprire quella porta e guardare in
faccia il mostro per capire come mai le idee di Salvini sono diventate
così popolari, perché vince un modello fatto di un capo che comanda e
che ha sotto un popolo indistinto. Le due grandi leve che muovono questa
sorta di regressione antropologica sono la rivoluzione digitale che
scaglia il singolo individuo nella dimensione globale senza alcuna
protezione. E questo non può che ingenerare paura. L’altra leva è
l’aumento enorme delle diseguaglianze che si accompagna al crollo della
produzione: quanto può reggere la democrazia un tasso così elevato di
diseguaglianza che tiene fuori non solo i poveri, ma anche le donne e i
giovani e in particolare le giovani donne? Per questo io parlo di un
riformismo che metta al centro le persone. E dico riformismo, non
riformite».
Conferma Marina Berlingheri, deputata di Brescia, esponente di quel
mondo cattolico cui Zingaretti tiene tantissimo (sono con lui anche
Silvia Costa, Dario Franceschini, David Sassoli) anche perché non vuole
essere schiacciato su un radicalismo alla Corbyn (e qui lo soccorre il
sostegno del moderato Gentiloni): «Abbiamo bisogno di parole d’ordine
unificanti e di riscoprire l’ascolto perché veniamo da una stagione
fatta di centinaia di tavoli ai quali tutti parlavano, ma nessuno
ascoltava l’altro. Abbiamo speso più tempo ad attaccarci tra di noi che a
combattere i nostri avversari politici».
Per tornare a essere competitivo il Pd di Zingaretti pensa dunque di operare una rottura radicale con il renzismo.
Immagina un nuovo inizio, forse anche un nuovo simbolo, un nuovo
contenitore, nuove alleanze, come in Abruzzo. «Non sono primarie per il
Pd. Sono primarie per l’Italia», dice Zingaretti, che dal popolo del 9
febbraio sembra attingere energia: «Da questa manifestazione spira un
vento nuovo, l’opposizione a questo governo che non fa gli interessi
degli italiani è in campo. Il problema è che dobbiamo cominciare a
gettare le reti».
Tra i pescatori che le stanno preparando c’è Goffredo Bettini, il padre
spirituale di Zingaretti, l’europarlamentare che ha lanciato la formula
del Campo Democratico. E c’è Massimiliano Smeriglio, vicepresidente
della Regione Lazio, proveniente dalla sinistra radicale, coordinatore
di Piazza Grande, la rete di associazioni e di persone
non iscritte al Pd che sostiene il governatore del Lazio: «Bisogna
prendere atto di una sconfitta storica e rifondare un nuovo campo
democratico che recuperi la diaspora», sostiene Smeriglio. «Per
ricostruire però dobbiamo liberarci dal settarismo di centro. Sono
passati dal partito della nazione al partito della fazione. Sono
contrario alla rottamazione delle persone e figurarsi se voglio cacciare
qualcuno, ma i consensi possiamo riconquistarli solo all’insegna della
discontinuità. Con il M5S la grande occasione è stata perduta nel 2013.
Oggi sono parte integrante di un pessimo governo. Il tema delle alleanze
verrà quando sarà necessario, ma non vedo che interesse potremmo avere a
regalare il M5S a una deriva nazionalista e razzista». Conclude
Zingaretti prima di partire per Bologna per partecipare a una convention
di donne e poi per il tour siciliano: «Penso che avremo un risultato
straordinario. In giro incontro entusiasmo e passione, agli appuntamenti
viene tanta gente che non ha la tessera, affluisce sangue nuovo: più
larga sarà la partecipazione e più squillante la vittoria».
Lasciamola per il momento, la bella piazza (ci torneremo più avanti, per incontrare il “figlio del sindacato”, Maurizio Martina, arrivato secondo nel voto degli iscritti) e spostiamoci lontano, molto lontano. A Danzica, dove Roberto Giachetti e Anna Ascani, il ticket iperenziano,
celebravano il sindaco Pawel Adamowicz nello stesso giorno in cui i
loro due competitor sfilavano a Roma. Un segnale simbolico molto chiaro,
potente, che vuole trasmettere un messaggio chiaro di alterità, anche
se non di contrapposizione. U
n sindaco liberal-progressista, antisovranista, antirazzista. Un
richiamo al superamento delle tradizionali tradizioni politiche. E poi,
domenica 10 febbraio, in una Milano che rimane bella sotto la pioggia,
si riuniscono i “nativi democratici”. L’appuntamento è al teatro
Parenti, luogo storico della cultura milanese. Tantissimi giovani (dal
palco parleranno solo loro), magliette arancioni, linguaggio da
Leopolda. Start up, innovazione, merito, ma anche equità, libertà,
solidarietà. Una nuvola di parole alcune delle quali ho ascoltato anche
nella piazza romana che da qua però sembra lontanissima. Qui non si
rinnega nulla. Non ci si pente. Non si accetta l’idea della
discontinuità: «Il Pd non deve essere ricostruito, rifondato, rigenerato. Il Pd deve essere compiuto», dice Roberto Giachetti.
La mattatrice della giornata però è lei, la Ascani, 31 anni, look molto
fashion, abito nero attillato, stivaletti, capelli lunghi e una grinta
da rockstar, l’opposto del look volutamente stropicciato da storico
militante del partito radicale del suo compagno d’avventura. «Ho
cominciato a fare politica per caso», racconta. «Avevo 18 anni e un
giorno tornata a casa trovo mio padre, che era democristiano, in
riunione con un gruppo di amici con i quali aveva promosso una lista
civica. Appena entro, un amico gli fa: “ma scusa, perché non candidiamo
tua figlia”. E lui: “No, Anna no”. Allora io dico: “Certo che mi
candido, dove devo firmare?”. Da allora per me la politica è condividere
i tuoi talenti con gli altri, è potere, declinato come verbo: io posso
cambiare le cose. Come pensava Adamowicz, il sindaco di Danzica, dalla
cui tomba non a caso abbiamo cominciato questa seconda fase delle
primarie. Era uno che costruiva ponti in un paese che sta costruendo
muri».
Qua ci sono anche i “Pischelli in cammino”, come Federico, 18 anni, fondatore della start up Breaking Tech:
«In un Pd che riprende la falce e martello e riapre la scuola delle
Frattocchie non saprei proprio che fare». Ancor più giovane è Paolo, che
compirà 16 anni appena in tempo per votare alle primarie: «Io sono nato
democratico. Non so vedermi in un mondo senza Europa, in un’Italia
senza libertà e temo che qualcuno voglia eliminarle. E non capisco di
cosa dovremmo vergognarci. Zingaretti che nasconde il simbolo del Pd
contraddice se stesso e Martina che dice “in Puglia voterei Emiliano”
non si può sentire».
Appassionati questi ragazzi, ma anche trascinati dalla faziosità dell’età. Non ha paura, allora, ad ammonirli Beppe Sala,
quando viene contestato mentre dice che verso il M5S è necessario un
atteggiamento più dialogante: «Ritirarsi sull’Aventino durante le
trattative per il governo è stato un errore. Guardate che di battaglie
identitarie si può anche morire». Non si schiera ufficialmente con
nessuno, il sindaco di Milano, ma sa che molti guardano a lui con
speranza e che Milano è ormai un modello: «La nostra rivoluzione è
coniugare solidarietà e sviluppo. Ma è una rivoluzione fatta con tanta
pratica», dice Sala. E anticipa all’Espresso che a breve proprio da
Milano partirà un “manifesto contro le diseguaglianze” a cui sta già
lavorando.
Mentre Zingaretti indica l’Abruzzo di Legnini – con il Pd alla pari con
liste civiche e movimenti quale modello – Giachetti, che pure ha
festeggiato Legnini, indica un’altra strada: «Non penso che possiamo
rinunciare alla vocazione maggioritaria, altrimenti torniamo alla
vecchia Unione fatta di partitini litigiosi». All’obiezione su come
possa aspirare ad esser tale un partito del 17 per cento Giachetti
replica: «La Lega quattro anni fa aveva il quattro». Quanto al rapporto
con il M5S, la chiusura è totale: «Chi dice che si può votare il reddito
di cittadinanza commette un grande errore perché significa dire ai
giovani che gli mettiamo in mano un assegno ma rinunciamo ai suoi
talenti. Noi dobbiamo essere il partito del lavoro, non il partito del
reddito», dice Anna Ascani. «Non si fermano i populisti facendo
l’accordo con i populisti», rincara Giachetti. Speranze di vincere?
«L’ultima volta Renzi ha vinto con il 70 per cento e se vengono a votare
quelli che hanno votato la volta scorsa ci saranno sorprese…», dice
Luciano Nobili, coordinatore della mozione.
È tempo di un flash back che ci riporti alla piazza di Roma, quella dei sindacati. Alle 7 del 9 febbraio 2019, mentre Giachetti e Ascani sono in volo per Danzica e Zingaretti si prepara a uscire di casa, Maurizio Martina, quarantenne, ex-segretario reggente , secondo classificato nel voto tra gli iscritti, appoggiato dalla maggioranza dei parlamentari già renziani, zaino in spalla, sale su un treno a Milano con i manifestanti che scendono a Roma. «Io sono stato funzionario della Fiom, sono un figlio del sindacato», dice. Ecco il ferroviere calabrese Mimmo, capelli e baffi bianchi, che lo saluta e poi lo fa parlare con il figlio che era nella sinistra giovanile e ora lavora in Svizzera. Poi i pensionati, i lavoratori del commercio. Da tutti “il figlio del sindacato” ascolta un pressante appello all’unità. Lo stesso che risuona a Roma, quando entra nel corteo, verso le 11. «Questa piazza è casa mia. E sento fortemente l’appello all’unità. I miei avversari non sono Zingaretti o Giachetti». La rete che lo sostiene è retta in gran parte dai parlamentari renziani come Luca Lotti e Graziano Del Rio, oltre che dal presidente del partito Matteo Orfini. Cosa che fa dire a Paola De Micheli, coordinatrice della mozione Zingaretti: «Quella di Martina è una pura operazione di ceto politico. Abbiamo realizzato un miracolo perché siamo partiti sotto di cinque punti rispetto a lui».
«Di Zingaretti , ribatte Martina, «non mi convince l’idea che si possano riproporre formule del passato. Abbiamo bisogno di un nuovo centrosinistra, non di tornare al vecchio che non c’è più, con operazioni di vertice. Abbiamo bisogno di reinventare un’idea moderna di redistribuzione». Del resto, dice, anche la semplice riproposizione della continuità non lo convince. Si è capito nel periodo della sua segreteria quando ha cominciato il suo tour nei luoghi difficili. A guardarvi a Tor Bella Monaca, gli dico, pur apprezzando l’intenzione, sembravate dei marziani, atterrati lì per caso : «Non è così. Volevamo dare un segnale e dire: eccoci ci siamo. Noi dobbiamo recuperare un rapporto con chi soffre e stare dove il governo non c’è”. Sarà per questo che la campagna di Martina è costellata di blitz simbolici: sulla nave dei migranti prima, al confine con la Francia, a Bardonecchia. Tuttavia è proprio lui, il figlio del sindacato, ad essere investito dalle contestazioni rivolte ai governi del Pd. Ecco un gruppo di lavoratori della scuola che rumoreggia, ma Martina accetta di portare la croce, ascolta, mette un braccio sulle spalle del contestatore e gli dice:«Proviamo a lavorare insieme, io ci sto. Scrivimi e vediamoci».
Finisce qui il nostro viaggio, in compagnia dell’Eroe designato, del Fool, del Cireneo. Sarà happy end o finale tragico?
L’ESPRESSO
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