La tracotanza moralistica sta stancando gli italiani
Fra gli intellettuali che nella prima metà dell’800 delinearono un «carattere nazionale» degli italiani, il più ottimista fu Alessandro Manzoni, convinto che fossimo tutti «brava gente» operante in una società tutto sommato «benevolente». Da buon rosminiano nell’anima egli teneva al primato della persona come «creatura umana», fatta da Dio in origine come uomo di terra (Adamo) e poi come uomo potenzialmente celeste, perché credente nel Cristo disceso dal cielo. E tutto il suo contributo al nostro Risorgimento fu proprio volto a concepire gli italiani come semplicemente «umani», prima ancora che contadini o padroni, massoni o cattolici, anglofili o papisti.
Sono passati ormai duecento anni o quasi da quel distillare da una mitica universale Italia una più banale idea di italiani. E ci ritroviamo ad ammettere che non c’è stata nel tempo una ulteriore adeguata elaborazione sul cosa siamo e potremmo essere come italiani. Ci ritroviamo anzi a constatare onde di emozioni collettive che ci rendono meno umani e benevolenti di quanto pensasse Manzoni; troppo spesso siamo orientati ad essere rancorosi, incattiviti, risentiti, impauriti, rabbiosi contro «altri» che disturbino il nostro spazio di vita e di agio.
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