Giorgetti: i 5 Stelle come noi nel ‘94 Infatti andammo a sbattere
Venire additato per aver visto Draghi, per esempio, lo considererebbe un gesto naif se l’accusa provenisse da un grillino di prima nomina, «dato che fare qualcosa per il proprio Paese andrebbe considerato un merito non una colpa». Ma se l’indice lo alza «chi mi definisce un dinosauro della politica dopo essere stato per anni nella Lega e aver persino diretto la Padania…». Ecco, questo lo fa sorridere mestamente. E gli fa trarre la conclusione che lo scontro sulla Tav è davvero l’ultimo dei problemi. Infatti i problemi dell’esecutivo sono altri e molto più gravi di un buco con la montagna intorno.
L’altra sera, arrivato in Consiglio dei ministri dopo il Consiglio supremo di difesa, Giorgetti ha confidato ai colleghi leghisti che Mattarella era «andato giù pesante». Nel cahier de doléance del capo dello Stato, il dossier sulla Tav stava in fondo a una lunga lista di questioni delicate, tra «impegni inevasi da onorare» e il rischio di porre «un’ipoteca sulla credibilità dell’Italia». Tutto messo a verbale e riportato addirittura nel comunicato finale, laddove si parlava del sistema militare e dell’esigenza di dare continuità «anche finanziaria» ai programmi di ammodernamento. Una forma quirinalizia per ricordare al governo che deve circa 500 milioni di euro ad alcune aziende del settore, compresa un’industria americana.
«La sberla di Mattarella al governo» — per citare un report pubblicato da Formiche.net — era indirettamente un messaggio di garanzia destinato ad attraversare l’Atlantico e insieme un modo per rassicurare anche gli alleati europei. Perché forse nel governo, affannati com’erano a leggere le rassegne stampa sulla Tav, si erano persi l’apertura del Financial Times, che a tutta pagina titolava: «Il rimprovero degli Stati Uniti innesca una divisione a Roma sulle aperture agli investimenti cinesi». Ora, una cosa è ingarbugliarsi sul reddito di cittadinanza, altra cosa è perdere cittadinanza nel consesso internazionale in cui l’Italia è storicamente collocata.
Terminata la lezione sul Colle, il professor Conte è tornato a palazzo Chigi frastornato, con una lista di appunti da studiare lunga così. Tranne poi averla dovuta riporre per gettarsi sulle carte della Tav, nel tentativo di trovare un minimo appiglio giuridico che consentisse a Di Maio di uscire dal tunnel. Ben sapendo che non ci sono strumenti per fermare l’opera. Giorgetti conosce certe dinamiche per averle già vissute, e se in principio ha provato a evitare che la storia si ripetesse, adesso osserva lo svolgersi degli eventi senza più intervenire.
Venticinque anni fa Bossi disse «Berluskaz», venticinque anni dopo Di Maio ha detto che Salvini è «un bambino». È la prova – secondo autorevoli esegeti leghisti e grillini — che «l’incantesimo tra i due si è rotto». E siccome il rapporto tra i vice premier è stato l’unico collante della coalizione gialloverde, è opinione bipartisan che il governo sia ai titoli di coda e che per interessi convergenti si arriverà alla separazione dopo le Europee. I bookmaker di Palazzo non prendono più puntate sulle elezioni anticipate. Ma non è detto che la storia tra i due non riparta dopo le urne, magari con equilibri diversi. Su questo nemmeno Giorgetti è disposto a scommettere.
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