L’ombra della Cina sui porti di Genova e Trieste

La delegazione cinese ha incontrato il presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mar ligure Occidentale Paolo Emilio Signorini e il segretario generale Marco Sanguineri. In un’altra zona di Genova insieme al premier Giuseppe Conte – per un incontro con i cittadini della zona arancione intorno al Ponte Morandi – c’era anche il viceministro alle Infrastrutture Edoardo Rixi. L’uomo di Salvini per la Liguria, in un colloquio con The Medi Telegraph, ha sostenuto con convinzione la necessità di creare una società tra l’Autorità portuale e il colosso cinese CCCC (China Communication Construction Company) ma con la maggioranza in capo “alla società pubblica italiana”.

I cinesi, secondo l’idea del Governo – perlomeno per la parte leghista – non dovranno avere le mani libere nelle costruzioni ma solo un ruolo “esclusivamente di progettazione e supporto: così per esempio, nella costruzione della diga, potremo tenere presenti anche i parametri che tecnicamente servono alle navi cinesi per portare a Genova altro traffico container”. Rixi non nasconde che l’obiettivo di creare la prima società di diritto italiano con la partecipazione di un colosso cinese rientra in una competizione oramai lampante tra il porto di Genova e quello di Trieste per attrarre i capitali e i container del Dragone. “Perché Trieste dovrebbe firmare un accordo con Pechino e il nostro porto no?”. La Cina, d’altronde, pesa per il 30% dell’interscambio dei porti di Genova e Savona. La città della Lanterna non vuole restare tagliata fuori dalla Via della Seta. L’impressione però è che Trieste sia il baricentro scelto dall’Italia per il progetto One Belt One Road che tanto sta facendo storcere il naso agli alleati europei e soprattutto oltre Atlantico.

Il tema è delicato e lo dimostra il Financial Times che in pochi giorni ha dedicato ben due articoli allo “spostamento” italiano verso Pechino. La strada è stata spianata nel Governo dal sottosegretario Michele Geraci, in un certo senso il “sinologo” dell’esecutivo Conte. Il premier condivide la linea leghista: “Ho dato la mia disponibilità a partecipare al secondo forum sulle nuova Via della Seta che si svolgerà in Cina a fine aprile. Con tutte le cautele necessarie l’adesione è un’opportunità per il nostro Paese. Stiamo lavorando a un accordo quadro”. Quello a Pechino sarà “l’evento diplomatico più importante dell’anno” aperto da un discorso del presidente cinese, Xi Jinping, ha fatto sapere il governo cinese: presenti un numero di capi di Stato e di primi ministri più alto rispetto alla scorsa edizione del maggio 2017, ci sarà anche il capo del Cremlino, Vladimir Putin. Il progetto punta a coinvolgere 65 Paesi, pari a circa il 65% della popolazione mondiale e il 40% del suo Pil.

La linea gialloverde è che da parte italiana non c’è alcuna preclusione ideologica, nonostante le pressioni degli Stati Uniti e i malumori dell’Unione Europea. “Siamo scettici sul fatto che il sostegno del governo italiano porterà benefici sostanziali agli italiani e potrebbe finire per danneggiare la reputazione globale dell’Italia sul lungo periodo”, ha detto Garrett Marquis, portavoce del National Security Council della Casa Bianca. “Né la Ue né nessuno Stato membro può ottenere efficacemente i suoi obiettivi con la Cina senza piena unità”, ha ammonito invece un portavoce della Commissione di Bruxelles. Tutti gli Stati “hanno la responsabilità di assicurare coerenza con leggi e politiche Ue e di rispettare l’unità dell’Ue nell’attuare tali politiche”.

Secondo una prima bozza del memorandum visionata da Euractiv, l’intesa tra Italia e Cina prevederebbe una struttura per “specifici accordi minori commerciali e di cooperazione”, tra cui nuovi investimenti cinesi nel porto di Trieste, come la partecipazione allo sviluppo della piattaforma logistica attraverso la China Merchants Group. La stessa Cmg ha già investito in passato 10 milioni nel porto di Ravenna su un centro di ricerca dell’industria navale e, soprattutto, ha manifestato il suo interesse per Venezia nella costruzione della banchina alti fondali sventolando un possibile investimento fino a 1,3 miliardi di euro. Non solo: tra gli accordi la cui firma è in previsione durante la visita del presidente cinese in Italia, ne viene citato uno per aumentare la cooperazione tra il gigante dell’energia elettrica cinese, State Grid Corporation of China, e l’italiana Terna. Altri accordi e joint-venture in previsione riguardano alcune società cinesi e Leonardo, e in fase di scrutinio ci sarebbe anche un accordo sull’e-commerce con il ministero del Commercio di Pechino.

Quando si parla di Cina e commercio, però, le tensioni sono da mettere in conto. Lo sa bene, ad esempio, la Germania che dopo le resistenze iniziali ha riaperto la porta alla cinese Huawei per lo sviluppo della sua rete 5G, facendo inarcare il sopracciglio alla Casa Bianca per nulla rassicurata dalle garanzie sulla sicurezza che la cancelliera Angela Merkel ha messo in chiaro pretenderà.

I timori per le aperture di settori strategici ai capitali cinesi sono fisiologici, ma nel caso del porto di Trieste sarebbero ingiustificati. Almeno così la pensa il presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mare Adriatico orientale Zeno D’Agostino: “Credo che siano in pochi a conoscere i contenuti dell’accordo tra Italia e Cina, e io non sono tra questi, anche se molti ne parlano, ma so che per quanto riguarda Trieste il progetto si chiama Trihub e fa parte di un accordo a un tavolo tra Unione europea e Cina, in cui Pechino propone investimenti infrastrutturali europei in Cina e Bruxelles investimenti infrastrutturali cinesi in Europa”. Di certo, come ha detto il suo omologo per il Mar Ligure occidentale Signorini, “falso dire che svendiamo il porto di Trieste ai cinesi”. In altre parole, i porti italiani non faranno la fine del Pireo di cui Pechino ha rilevato il 67% attraverso la Cosco Pacific in seguito alla privatizzazione resasi necessaria per la crisi del debito.

Un rapporto dello scorso anno del think-tank italiano Ambrosetti sosteneva che l’Italia è rimasta indietro rispetto a Germania e Francia nell’attrarre capitali cinese perché “mancava di continuità strategica”. Riporta il FT che il Paese asiatico rappresenta circa il 2,7% delle esportazioni italiane, per un valore di 11,1 miliardi di euro, diventando così l’ottavo mercato di esportazione in Italia. Le importazioni dalla Cina valgono 27,3 miliardi di euro, pari all’1,3% del mercato di esportazione cinese e il 19° mercato di esportazione della Cina.

L’HUFFPOST

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