Il governo, le crisi e il dilemma del voto
Teniamo però presente che — stante l’attuale sistema elettorale e fidandoci dei sondaggi — c’è un solo caso in cui l’esito del voto potrebbe essere sostanzialmente diverso da quello del 4 marzo 2018: un’indiscutibile vittoria del centrodestra guidato da Salvini, schieramento che potrebbe ottenere la maggioranza assoluta dei seggi sia alla Camera che al Senato. Gli altri — M5S, Partito democratico e raggruppamenti minori — potrebbero ambire a conquistare l’intera posta solo se si coalizzassero tutti assieme (e forse neanche in quel caso). Tutti. Ma, comunque, di un’alleanza del genere non c’è attualmente alcun sentore.
Se poi neanche il centrodestra riuscisse ad avere il 51% in entrambi i rami del Parlamento, ci ritroveremmo in una situazione simile a quella di un anno fa. Ancora una volta — al fine di dar vita ad un governo politico o anche tecnico — sarebbero costretti a coalizzarsi partiti che in campagna elettorale si sono tra loro duramente contrapposti. Con l’aggiunta che sarebbe improbabile la riproposizione dell’alleanza «a due» di questa legislatura. Sicché stavolta a doversi mettere assieme, stipulando eventualmente un nuovo «contratto», dovrebbero essere — in ragione dei numeri — più partiti e non soltanto due come è accaduto a giugno del 2018: il sistema non guadagnerebbe in stabilità.
Nicola Zingaretti, in procinto di essere eletto segretario del Pd, all’indomani delle primarie è stato tra i primi a dichiararsi indisponibile, in caso di crisi, a governi di tregua. E, senza giri di parole, ha auspicato elezioni anticipate. Lodevole per la nettezza della dichiarazione di intenti. Ma immaginiamo che lo stesso Zingaretti abbia ben presente come il suo partito, dovesse anche guadagnare qualche punto in percentuale, difficilmente riuscirebbe a raggruppare attorno a sé una coalizione del 50% (o poco meno). E, di conseguenza, ancor più a stento riuscirebbe ad entrare da protagonista nei giochi per la formazione di governo. Il Pd potrà crescere, è vero, ma non si troverà in condizione di dettare ad altri l’agenda politica. Nei fatti il centrosinistra potrà essere in partita solo sostituendo la Lega nella coalizione con i Cinque Stelle. Sempre che i numeri lo consentano, beninteso.
Per questi motivi sarà improbabile che, qualora in elezioni anticipate il centrodestra non dovesse conquistare la maggioranza assoluta dei seggi, il nuovo Parlamento possa trovarsi in condizioni migliori delle attuali. Difficilmente cioè riuscirà a dar vita a un esecutivo più forte, più omogeneo, più capace di fronteggiare la crisi di quanto lo sia stato quello di Giuseppe Conte. Per di più, se l’opportunità di sedersi a Palazzo Chigi dovesse toccare a Salvini (assistito dalla Meloni e da Berlusconi) si può prevedere che il suo governo, a differenza di quello attuale, sarà contrastato da un’opposizione alquanto vivace. Il nuovo quadro, movimentato dalla ritrovata libertà d’azione dei Cinque Stelle nuovamente «partito di lotta», da una sinistra che ha ritrovato la baldanza e da qualche inchiesta giudiziaria, a fatica potrebbe presentarsi come più stabile di quello attuale.
Sullo sfondo, ad increspare le acque, resterà oltretutto l’elezione del nuovo capo dello Stato (il mandato di Sergio Mattarella scade nel gennaio del 2022). In teoria spetterebbe agli attuali parlamentari (che dovrebbero restare in carica fino a marzo del 2023) eleggere il nuovo capo dello Stato. Ma sono in pochi a scommettere che questa legislatura duri fino al suo compimento naturale. Più probabile che prima o poi siano convocate, appunto, elezioni anticipate. Si tratta solo di scegliere il momento più propizio e la sinistra, prima di assestare il proprio spintone che potrebbe essere decisivo, deve calcolare bene i tempi proprio perché alle nuove Camere toccherà pronunciarsi sul Quirinale. E questa rischia di essere la prima volta da quasi cinquant’anni, cioè dal dicembre del 1971 quando fu eletto Giovanni Leone, in cui potrebbe salire sul colle qualcuno (uomo o donna) che non avrà i voti degli eredi della Democrazia cristiana e del Partito comunista.
Tutto, dicevamo all’inizio, fa pensare che la crisi sia imminente e che a ruota saranno convocati i comizi per nuove elezioni politiche. Ma qualcosa suggerisce una qualche prudenza in questa previsione. La Tav, certo, è importantissima ma si può esser sicuri che, prima di giocare i propri destini alla roulette, partiti o movimenti di governo e di opposizione daranno retta al loro istinto e si fermeranno a riflettere. Una sosta di meditazione che potrebbe rivelarsi più lunga del previsto.
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