Franco Ferrarotti all’Huffpost: “Il piacere del potere è troppo intenso. Di Maio e Salvini dureranno per 5 anni”

È un fatalista?

No, sono una persona che crede negli incontri. Tutto è avvenuto grazie alla casualità, nella mia vita.

Lei non ha nessun merito?

Non ho nessun merito se, dopo l’8 settembre del ’43, nel pieno della guerra civile italiana, incontrai, a Casale Monferrato, Cesare Pavese.

Che ci faceva lì?

Stava sotto falso nome in un collegio tenuto dai padri somaschi. Fu lui a farmi tradurre i primi tre libri per la casa editrice Einaudi, allora una casa editrice piuttosto modesta. Eravamo diventati amici facendo lunghe camminate. Parlavamo di letteratura, poesia, politica, filosofia.

Come conobbe Olivetti, invece?

Ero il classico imbucato, come si direbbe a Roma. Sempre alla ricerca di posti in cui mangiare qualcosa. Mi trovai, una sera, a parlare con un uomo tondo. Ero stato a Parigi e a Londra, dopo la guerra. Mi parlò con entusiasmo delle nazionalizzazioni dei laburisti inglesi. Gli dissi: “Lei non ha capito proprio niente. Per gli operai, è una disgrazia. Non avranno più nemmeno un padrone da mandare al diavolo”. Non sapevo di aver appena dato del cretino ad Adriano Olivetti.

E lui?

Mi disse che avremmo dovuto rivederci al più presto nel suo ufficio. Mi propose la direzione del personale. Rifiutai, dicendo che non faceva per me. Insistette. Finché, non concordammo che avrei fatto l’addetto alla presidenza per le questioni sociali (anche se non sapevo bene cosa significasse). Era il 1949. Erano uscite le mie traduzioni. Avevo un lavoro alla Olivetti. Fu un anno splendido. Tanto quanto quello successivo fu orribile.

Perché?

Perché una sera d’estate, a Venezia, tornando in albergo mi dissero che avevo ricevuto delle telefonate da Torino. Subito dopo, la notizia che Cesare Pavese si era suicidato all’Hotel Roma, in piazza Carlo Felice. Le telefonate erano sue. Le fece poco prima di uccidersi. Fu tremendo non esserci stato in quel momento.

Come reagì?

Me ne andai in America, a Chicago, a scoprire l’America vera, lontano dall’anticamera dell’America che è New York. Studiai, scrissi, insegnai, a Chicago e ad Harvard. E poi viaggiai, viaggiai tantissimo. Conobbi la fabbriche, i sindacati americani, feci campagna elettorale per Stevenson, e dialogai con moltissimi grandi intellettuali, tra cui Leo Strauss.

In parlamento come arrivò?

Un giorno, io lavoravo ormai a Parigi, ricevetti una telefonata di Pier Aldo Cormani. Mi disse che Olivetti si era dimesso e io ero il primo dei non eletti del Movimento Comunità. Dovevo scegliere: fare il deputato o continuare il mio incarico all’Ocse? Scelsi il parlamento. Tornai in Italia ed esordii con un discorso feroce contro il governo Tambroni.

Ma c’è qualcosa della politica di Olivetti nel Movimento 5 stelle?

Perché dovrebbe?

Perché anche Gianroberto Casaleggio è stato un olivettiano.

Il movimento di Olivetti aveva intuito la crisi dei partiti politici con decenni di anticipo. Fummo noi a coniare il termine partitocrazia. Ma questo non c’entra niente con il vaffa grillino. Per Olivetti, c’erano due capisaldi: la tecnologia e le idee. Il movimento 5 stelle ha solo la tecnologia. È sufficiente considerare la piattaforma Rousseau: una caricatura atroce della democrazia.

Cosa ha capito della politica?

Quando stava per nascere il primo governo di centrosinistra, il mio voto divenne dirimente. Ricevevo in continuazione telefonate che mi chiedevano di schierarmi. Io, invece, prendevo tempo. Non mi esponevo. E più nessuno sapeva come avrei votato, più il valore del mio voto cresceva. Ne ero inebriato. Capii così che il vero potere è il potere di non esercitare il potere.

La politica italiana è sempre così indecisa?

Il grande archetipo della politica italiana è la commedia dell’arte. Cosa succede a Pulcinella? Viene scaraventato sulla scena e deve cavarsela improvvisando. Non ha una trama. La sua è pura azione. Come il futurismo di Marinetti, le imprese di D’Annunzio, la marcia su Roma di Mussolini, la discesa in campo di Berlusconi, fino ad arrivare al vaffanculo di Grillo.

Salvini, invece?

È ingiusto associarlo a Mussolini. Ingiusto per Mussolini, intendo. Da giovane anarco-sindacalista, apprezzavo le intuizioni del Mussolini socialista, il militante che inventò lo sciopero dei fiammiferi. Forse, Salvini si può associare piuttosto al Mussolini della decadenza. Il duce che si toglie la canottiera e sale sulla trebbiatrice. Comune è la sensibilità mimetica: Mussolini si travestiva da raccoglitore di grano, Salvini si traveste da qualsiasi cosa, cambiando opportunamente felpa.

Non hanno in comune anche il primato agli italiani?

Salvini non mette al primo posto gli italiani: mette al primo posto le paure della società senescente italiana. Il vecchio vive nel terrore della morte. Sa che la morte è imminente. Ignora soltanto come avverrà. Sarà un microbo? Un’infezione? Una ferita? Nell’incertezza, rifugge da qualsiasi contatto, dalla contaminazione, perché la morte potrebbe nascondersi dietro qualsiasi incontro. Nello stesso tempo, però, il vecchio ha bisogno dell’altro. Non può vivere senza. Ed ecco che cos’è la paura degli immigrati: il terrore, tipico di una società vecchia, di morire entrando in contatto con l’altro. Negando così che l’altro è proprio ciò che gli serve per vivere.

A lei la morte cosa fa pensare?

Ai miei nemici. La morte mi ispira una grande gratitudine per i nemici.

Perché gratitudine?

Perché i nemici mi hanno isolato. Mi hanno costretto a rinunciare agli onori. Hanno ferito il mio orgoglio. Ma mi hanno restituito a me stesso. Costringendomi a interrogare il mio vero io. Il più grande regalo della vita.

L’HUFFPOST

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