Così Grillo e Di Battista sono finiti ai margini: tormenti dei nuovi 5 Stelle

Oltre quelle colonne d’Ercole, fino a un nuovo ordine che probabilmente non arriverà né prima né durante né dopo le elezioni Europee, non ci si può spingere. Il governo Conte rimane un totem, l’alleanza con Salvini anche, Tav o non Tav. Per cui, una campagna elettorale per le Europee svolta sulla traccia dei mille distinguo dalla Lega — che era il piano originario del ritorno in prima fila di Di Battista — adesso è finita in soffitta.

È successo tutto nella notte tra il 10 e l’11 febbraio, mentre in Abruzzo si scrutinavano le schede che certificavano il primo successo del 2019 leghista e la prima disfatta dell’anno per il Movimento. Tempo qualche ora e Di Battista, a colloquio con Di Maio e con il gotha della comunicazione pentastellata, si ritrovava «fuori linea». Anzi, addirittura, artefice di una «comunicazione che ci ha mandato a sbattere». A sentire le testimonianze dirette a un mese di distanza da quella riunione, alla fine del summit il ragionamento opposto dal leader dell’ala barricadera del Movimento è più o meno questo: «Ho una presenza in televisione già fissata e mi adeguo a quello che chiedete. Dopodiché, mi faccio da parte. Se cambiate idea, fatemi sapere». L’intervista in questione era quella a Giovanni Floris per Di Martedì, su La7, rimasta celebre per gli applausi del pubblico invocati da un Di Battista rimasto anni luce distante dagli attacchi a Salvini. Ed è, a oggi, l’ultimo suo segnale di vita pubblica, reale e sui social network. Dopo di quella, il nulla.

«Simul stabunt, simul cadent», si diceva già nel 2013 di Grillo e Di Battista, che da subito avevano incarnato un Movimento più intransigente che votato al dialogo, più ideologico che pragmatico, decisamente tutto di lotta e per nulla di governo. Adesso sono nella fase in cui «simul cadent». Il primo in giro col suo show, spesso oggetto di fischi e contestazioni in realtà rivolti a un governo in cui non crede. Il secondo desaparecido, ormai con un piede e mezzo di nuovo fuori dalla contesa politica, disposto a cambiare i piani del suo avvenire solo nel caso in cui il Movimento decidesse di divorziare da Salvini.

Già, perché è Salvini il convitato di pietra di questa storia. Il Salvini salvato dal processo per la Diciotti dai senatori del M5S e poi dal voto su Rousseau (Di Battista e Grillo erano favorevoli al processo), il Salvini che pretende la Tav (Di Battista era ed è per il no secco), il Salvini diventato per un pezzo del Movimento un alleato da cui divorziare e per un altro pezzo l’unica speranza di salvezza. Dopo lo statuto della nuova associazione, se ci fosse la rappresentazione plastica di una scissione che culturalmente e politicamente è già sotto gli occhi di tutti, il M5S col marchio di originalità — con tanto di nome e simbolo — sarebbe là dove decideranno di stare Di Maio e Casaleggio junior.

E Di Battista? Tornerà oppure no? Chissà. Nel frattempo, nelle ultime settimane, ha rifiutato anche di partecipare al piano di emergenza, quello di ignorare Salvini per concentrarsi esclusivamente sul tamponare l’emorragia di voti verso il Pd. Basti guardare la vicenda dell’arresto (poi revocato) dei genitori di Renzi, suo antico cavallo di battaglia. Niente, non ha detto neanche mezza parola.

CORRIERE.IT

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