Gran Bretagna, la democrazia come «farsa», il futuro di un Paese stanco in preda a una crisi di nervi

Ho raccontato, parlando ieri mattina a Chatham House, come noi italiani, alla politica e ai governi, riserviamo una dose di cinismo: anche se li abbiamo votati. In tempi normali, questo atteggiamento crea i problemi che sappiamo; ma in tempi eccezionali, come quelli che stiamo vivendo, fornisce una valvola di sicurezza. In fondo – ci capita di pensare – certe delusioni ce le aspettavamo. Gli elettori britannici sono diversi: certe cose non se le aspettano. Magari non lo ammettono, ma credono nella professionalità dei propri governanti. E lo spettacolo politico cui assistono da quasi tre anni è imbarazzante. Anzi: dilettantesco. E il dilettantismo, per gli inglesi, è imperdonabile.

Cosa accadrà adesso è impossibile sapere. Le variabili sono spiegate nel pezzo del nostro corrispondente, Luigi Ippolito. Ma qualcosa deve succedere, perché la nazione che si vanta di sapere mantenere la calma nel momento del pericolo (grace under fire) è sull’orlo di una crisi di nervi. Un’uscita scomposta dall’Unione Europea — senza un accordo, in sostanza — appare improbabile (il voto di stasera, ovviamente, potrebbe smentirmi). Una proroga oltre la scadenza prevista (29 marzo) appare la soluzione più probabile. Ma per far cosa, quando, come, e con chi?

Un manicomio democratico. Così titolerò, su 7-Corriere, il racconto di queste giornate, iniziate lunedì con un’attesa di quattro ore sull’altro lato della Manica (sciopero delle dogane francesi, preoccupate per Brexit!). Sto leggendo, vedendo e ascoltando cose incredibili, per chi conosce questo Paese. Ieri ho parlato a lungo con i colleghi di The Economist, nella nuova, luminosa sede sulla Strand. Li conosco bene e li considero tra i più bravi al mondo: neppure loro hanno idea di cosa possa accadere. Brexit sfida ogni logica, e la logica è il gioiello più brillante nella corona mentale britannica.

Una soluzione — ipotizza una collega americana residente a Londra, Anne Applebaum, premio Pulitzer — potrebbe essere la strada norvegese: uscire dall’Unione Europea, e restare nel mercato unico. Ma questo significa garantire – insieme a quella delle merci e dei servizi – la libera circolazione delle persone; e questo i Brexiteers non lo accetteranno mai. Sul timore di un’invasione — inesistente: i forestieri hanno portato nel Regno Unito braccia, cervelli, risorse e fantasia — è stata costruita la vittoriosa campagna del 2016. Riaprire le frontiere, per costoro, sarebbe inconcepibile.

Lo scoglio contro il quale è naufragato l’accordo con la UE è il backstop (l’assicurazione che non tornerà un confine fisico tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda). Ma nel caos politico britannico si mescolano ambizioni personali (la successione a Theresa May), confusione (l’ambivalenza del laburista Jeremy Corbyn), propaganda (ieri Boris Johnson ha ripetuto, alla Camera dei Comuni, che «il Regno Unito non vuol essere una colonia dell’Unione Europea»). Ma c’è un altro aspetto grave, ed è questo: il Paese è paralizzato. L’interminabile litigio su Brexit impedisce il normale funzionamento del governo e del parlamento.

Questo è punto fondamentale, che non si esaurisce col voto di ieri, né con quelli di oggi e di domani. Nel caso di uscita dall’Unione Europea, il Regno Unito dovrà negoziare una lunghissima serie di accordi bilaterali, in ogni settore. E la Camera dei Comuni dovrà votarli, uno per uno. Un incubo di cui non si vede la fine. E potrebbe essere evitato. Come?

Restando dentro la famiglia europea, cui la Gran Bretagna appartiene: per storia, per carattere, per merito.

CORRIERE.IT

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