Il giallo della modella: i conti che non tornano sull’avvelenamento
Si complica ancora, se possibile, il mistero intorno alla morte di Imane Fadil. Smentita dagli scienziati l’ipotesi del «mix di sostanze radioattive», si continua a seguire la pista dell’avvelenamento.
Per tre motivi: la 34enne, teste nei processi sul caso Ruby, riferì proprio questo timore. Presentava sintomi compatibili con la somministrazione di un veleno. E i medici dell’ospedale Humanitas, dove è morta il primo marzo dopo un mese di agonia, hanno effettuato esami in tale direzione.
Il Centro antiveleni dell’Istituto Maugeri di Pavia, diretto da Carlo Locatelli, è un’istituzione in materia. Lì il 26 febbraio l’ospedale ha inviato i campioni per i test tossicologici. Ieri Locatelli, che firmò i referti del 6 marzo, precisa: «Ci è stato richiesto il dosaggio dei metalli, ossia la loro individuazione in liquidi biologici». Sull’avvelenamento e sulla radioattività: «Il nostro Centro non identifica radionuclidi (particelle che emettono radiazioni, ndr) e non effettua misure di radioattività». Gli esperti di Pavia, nel leggere i risultati, non hanno lontanamente pensato a un avvelenamento. Né che i metalli trovati fossero la risposta alle domande sulle cause della morte. Le uniche tre sostanze risultate leggermente sopra la norma sono state cobalto, cromo e molibdeno. Si trattava però di quantità trascurabili. Il più rilevante, il cobalto, aveva una concentrazione dello 0,7 per cento. E questa sostanza è tossica (ma non ancora letale) sopra il 41 per cento. Non solo. Sono sostanze reperibili abbastanza facilmente in commercio.
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