Investire di più, poi il resto

Un modo diverso di vedere la stessa cosa — cioè che risparmiamo più di quanto ci serva per investire e coprire il buco dei conti pubblici — è che il valore delle nostre esportazioni supera il costo delle importazioni di circa 40 miliardi di euro l’anno. Non abbiamo quindi una problema di scarsità di esportazioni. Potremmo, certo, esportare di più ma questi maggiori incassi andrebbero ad aumentare il nostro avanzo commerciale e quindi l’eccesso di risparmio. In sintesi: il nostro problema è che investiamo troppo poco. E questo problema non lo si risolve facendo pagare i nostri investimenti ai cinesi. Se ciò accadesse, aumenterebbero semplicemente i nostri investimenti esteri per compensare i maggiori investimenti di Pechino in Italia.

Diverse le ragioni per cui investimenti pubblici e privati sono fermi. Nel caso degli investimenti privati, gli imprenditori lamentano il costo dei prestiti, salito da dieci mesi in qua a causa dello spread e della grande incertezza politica, e soprattutto sono spaventati dal rischio che l’incapacità di fermare la crescita del debito pubblico (in rapporto al Pil) renda necessaria a un certo punto un’imposta patrimoniale pesante. Gli investimenti pubblici, invece, non partono non per carenza di risorse (ci sono oltre 100 miliardi di euro già «spendibili» in quanto previsti da precedenti leggi di bilancio approvate dall’Unione europea), ma per l’incapacità delle amministrazioni pubbliche di fare i progetti e appaltare le opere. Il ministro Tria è ben cosciente del problema, ma dopo dieci mesi di governo poco o nulla si è mosso.

Che significa tutto questo rispetto alla trattativa che il governo sta conducendo con la Cina? Innanzitutto che dobbiamo trattare da una posizione di forza perché noi siamo molto diversi dai Paesi dell’Africa e dell’America Latina con i quali la Cina è abituata a trattare (in quei Paesi di risparmio ce n’è poco e senza finanziamenti dall’estero non si investe). Se invece il problema è aprire i porti italiani alle navi cinesi, i nostri porti già lo sono e le navi cinesi sono da sempre benvenute. Se si tratta infine di investire per attrezzare la banchine e scavare i fondali, ad esempio nel porto di Taranto, non c’è bisogno di vendere il porto ai cinesi, come hanno fatto i greci (altro Paese con scarso risparmio) con il porto del Pireo. Lo si può fare con una quota di quei 100 miliardi mantenendo italiana la gestione del porto — il che non impedisce che alcune banchine vengano date temporaneamente in concessione in cambio di lavori.

A maggior ragione non c’è bisogno di chiedere che siano i cinesi a costruire le nostre reti di telecomunicazione, ad esempio per il 5G. Come osservava Eugenio Cau sul Foglio (del 21 novembre 2018) «c’è un passaggio esplicito della legge nazionale sull’Intelligence approvata da Pechino l’anno scorso, secondo il quale organizzazioni e cittadini [cinesi, ndr] devono, conformemente alla legge, sostenere, cooperare e collaborare con il lavoro dell’intelligence nazionale». Zte e Huawei sono due aziende indipendenti, ma chi può escludere che un giorno il governo di Pechino non pretenda una prova di lealtà?

CORRIERE.IT

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