Un Paese incerto non riesce a crescere
In altri termini l’economia non ce la fa proprio a crescere se chi deve comprare un macchinario per l’azienda, decidere di assumere un dipendente o acquistare un mobile per casa non riesce a capire poche cose fondamentali: quante tasse dovrà pagare tra qualche mese, quanto saranno cari gli interessi sul debito pubblico e dunque anche sul suo prestito in banca, chi starà seduto ai banchi del governo tra sei mesi. In quella intersezione fra la linea dell’incertezza e quella della crescita è racchiuso ciò che l’Italia sta diventando oggi, agli occhi dei suoi abitanti e del resto del mondo. Tutti i mesi migliaia di investitori che devono decidere se impegnare parte del loro denaro nel debito di Roma, in un’impresa esportatrice del Nord-Est o in un progetto turistico in Sicilia consultano proprio quell’indice dell’incertezza. Ne esiste uno relativo al sistema internazionale, uno sull’Europa e poi per tutte le principali economie del pianeta, Italia inclusa. Lo producono tre studiosi americani: Scott Ross Baker della Kellogg School of Management, Nick Bloom di Stanford e Steven Davis dell’Università di Chicago. In Europa spiccano due Paesi nei quali la misura dell’incertezza viaggia ai massimi o quasi, a significare che la nebbia sul futuro prossimo è fitta: la Gran Bretagna della Brexit e l’Italia. Guarda caso, hanno anche la crescita più bassa o sono in piena decrescita. Nel nostro Paese in dicembre il termometro della nebbia sulla politica economica era salito persino sopra i livelli di novembre 2016, alla vigilia del referendum di Matteo Renzi. Poi è sceso un po’, ma c’è francamente da dubitare che la distensione possa durare. Non passa settimana che le forze di governo non trovino argomenti per nuove liti. L’ultima proposta della Lega, una tassa «piatta» al 15% o al 20% per i lavoratori dipendenti ha il sapore di un’esperienza già provata: la campagna elettorale di un anno fa. Che la cosiddetta «Flat tax» per le famiglie costi sessanta miliardi di euro o cinque volte di meno, come sostiene la Lega, conta meno del fatto che solo per stabilizzare il deficit e il debito pubblico serviranno già 24 miliardi di nuove tasse o tagli di spesa tra pochi mesi. Prima ancora di pensare di spenderne altre decine in promesse fiscali al maggior numero possibile di elettori. Il sapore decisamente elettorale di quest’idea per ora non può che far salire ancora la linea dell’incertezza, con nuove ripercussioni sulla quella della crescita.
Non è un buon momento per farlo. Anche a livello globale proprio il termometro dell’incertezza è vicino ai massimi da più di vent’anni proprio a causa della Brexit, dei venti di guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina e del rischio che la Casa Bianca di Donald Trump trascini anche l’Unione europea in un conflitto a colpi di dazi. Sempre per restare alle classifiche globali, secondo Global Trade Alert l’Italia con la sua vocazione manifatturiera è il terzo Paese più danneggiato al mondo dalle misure protezioniste di altri governi. Abbiamo da perdere più che quasi chiunque altro da una spirale di ritorsioni commerciali fra Washington, Pechino e Bruxelles. Non è certo il momento di farci male da soli con una campagna elettorale permanente fatta di promesse improbabili.L’altro giorno a Londra Citi, la grande banca americana, ha tenuto un evento con trecento investitori così grandi da pesare molto sul mercato. Si è parlato di Italia a lungo. Alla fine si è tenuto un sondaggio fra i presenti: il 53% pensa che a fine anno lo spread fra titoli tedeschi e italiani – cioè il costo del nostro debito – sarà ancora intorno ai livelli attuali (che sono decisamente troppo alti), il 36% prevede che salirà ancora di più e solo l’11% si aspetta un miglioramento. Tutto ciò non fa che dirci che, come italiani, dovremmo vedere le scelte nella vita pubblica con la maturità con cui prendiamo le nostre decisioni personali. Nella vita privata sappiamo benissimo che non esistono soluzioni magiche, ma solo compromessi, qualche sacrificio e tanto realismo per migliorare le cose poco a poco. Non c’è ragione, come elettori, di credere in qualcosa di diverso.
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