Palazzo Chigi contro il «metodo Lega»: sporcano tutte le nostre iniziative

Avrebbe potuto dire che invece di fermare gli sbarchi di una cinquantina di disgraziati, avrebbe fatto meglio a rimpatriare centinaia di migliaia di clandestini; e che invece di invocare la castrazione chimica, dovrebbe garantire la sicurezza di periferie dove non si vede un poliziotto. E ancora, che invece di girare con felpe e caschi, poteva stare di più al Viminale. Ma né Conte né noi lo abbiamo detto, finora».

Quell’avverbio, «finora», produce un’eco minacciosa. E i Cinque Stelle non fanno nulla per attenuarla. Avvertono che d’ora in poi «anche noi diremo qualche verità in più sulla Lega, quando prenderà le sue iniziative. Saremo costretti a fare un po’ d’opposizione, nella maggioranza. La nostra correttezza non ha pagato elettoralmente anche perché ci sparavano addosso non solo dalle opposizioni ma dal governo». Dietro un’analisi così esacerbata si avverte il riflesso delle sconfitte nelle regioni. Il nervosismo che pervade le stanze di palazzo Chigi produce una gran voglia di trovare un colpevole; e di cercarlo non tra gli errori grillini, ma fuori.

D’altronde, mai come in questi giorni affiora il timore, ormai non così campato in aria, che le Europee possano portare a un responso ancora più severo nei confronti del Movimento; e dunque a indebolire ulteriormente non solo la leadership di Di Maio tra i suoi, ma il potere di contrattazione con Salvini. La prospettiva di essere usati, spremuti, ridimensionati e poi portati a elezioni anticipate tra l’autunno e febbraio, non può risultare gradita. La voglia di reagire al «metodo Lega» con un «metodo Cinque Stelle» è forte, sebbene non si capisca a che cosa possa portare. La sensazione è che il vertice grillino cominci a ritenere di non avere alternative: o reagisce, o viene soffocato dal suo alleato contrattuale.

Il diagramma dei sondaggi ha offerto un andamento chiaro. Dal 4 marzo del 2018 all’ottobre dello stesso anno le percentuali del M5S oscillavano tra il 33 e il 30 per cento, senza grandi scostamenti. Sono saliti i consensi per come il governo si è mosso sul Ponte Morandi a Genova dopo il crollo di agosto, e per il taglio dei vitalizi ai parlamentari. Poi è cominciato un calo progressivo. Prima il pasticcio della manovra finanziaria e le tensioni con la Commissione europea sul tetto del deficit. Poi le polemiche sul reddito di cittadinanza, «con i leghisti che soffiavano sull’idea di una misura assistenziale», accusa il vertice grillino.

Ora nel M5S sostengono che sapevano quanto la loro posizione sarebbe stata impopolare. «Ma l’abbiamo fatto perché ci sembrava giusto. Eravamo consapevoli che non ci avrebbe portato molti voti, perché gli ultimi non hanno voce. Anche lì, la Lega non ci ha aiutato. Ci siamo trovati contro il Nord che pure è tra quelli che hanno chiesto di più il reddito». Su questo sfondo si è inserito il filotto negativo dei voti regionali, dando corpo allo scenario di una disfatta europea.

Il Movimento esclude, ormai, di riavere il terzo dei voti delle Politiche. Sta combattendo, in realtà, per non scendere sotto il 20 per cento. «Intorno al 20 potremmo dire che è andata benino: sarebbe lo stesso risultato di cinque anni fa alle Europee», si spiega. «Sotto, comincerebbe a essere un problema. E se poi se si scendesse al 15 per cento, be’, allora bisognerebbe davvero rivedere tutto». È un’analisi spassionata, che fa capire come di qui a due mesi Di Maio possa trovarsi a fronteggiare due avversari: gli appetiti elettorali crescenti di un Salvini convinto di vincere, e le frustrazioni di un Movimento tentato di trovare un capro espiatorio per le sue sconfitte.

Quando Conte allude a sondaggi che in caso di voto anticipato possono diventare «carta straccia», sembra alludere al vicepremier leghista: alcune critiche del Carroccio al premier hanno fatto rizzare le orecchie a Palazzo Chigi. Il giudizio opposto di Di Maio e Salvini sull’allarme di Confindustria in tema di recessione, il primo d’accordo, l’altro pronto a bollare gli imprenditori come «gufi», certifica il conflitto finale nel governo populista: può essere una parentesi o diventare una guerra, a seconda del responso delle Europee.

CORRIERE.IT

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