Netanyahu vince (ancora): tra scandali e carisma, le mille sfide del premier più longevo di Israele
Conquistando il quinto mandato che dovrebbe farne il premier più longevo, più di David Ben Gurion fondatore dello Stato, Bibi conferma la sua centralità. Non ha stravinto; il rivale, Benny Gantz, è alla pari; ma l’unico che può formare una coalizione di governo è ancora lui. Tutta la sua politica, del resto, si fonda sull’alternanza tra la paura e la forza. Israele è accerchiata dal nemico iraniano, che prepara l’atomica e nel frattempo arma, addestra, finanzia Jihad e Hamas a Sud, Hezbollah a Nord, il regime di Assad a Est. Ma Israele non è mai stata così sicura da quando Netanyahu dialoga con i satrapi del Medio Oriente, da Al Sissi ai sauditi, e stringe accordi con i potenti del mondo.
Con Putin parla in russo, la lingua della madre; il padre era polacco. Da ragazzo, Benjamin di cognome si chiamava Mileikowski; in America divenne Netanyahu, che in ebraico significa dono di Dio. Americana è la sua formazione. Con Obama si sono detestati. Bibi si è dato la missione di resistergli; ce l’ha fatta. Ora Obama tiene conferenze, lui ha trovato un presidente che lo capisce. Trump ha riconosciuto la sovranità israeliana sul Golan (“abbiamo fatto bene a tenercelo, i siriani ci avrebbero bombardati dall’alto e soprattutto non avrebbero mai fatto un cabernet-sauvignon come il nostro” ti dicono sorridendo nei bar dove si seguono le prime proiezioni elettorali). E ora Trump appoggerà l’annessione di parte della Cisgiordania.
Netanyahu, a parte l’innegabile carisma, è anche un uomo molto odiato. L’inchiesta più chiacchierata è quella sui regali, dallo champagne per la moglie ai sigari per lui, rigorosamente Cohiba Siglo V, i preferiti di Castro: Bibi ne ha ricevuti tanti che potrebbe fumare per 3.240 ore di fila, 135 giorni. E poi gioielli, viaggi aerei, pure biglietti per il concerto di Mariah Carey, che una famiglia con un patrimonio di 14 milioni di dollari si sarebbe tranquillamente potuta permettere. Tra i donatori più munifici, Arnon Milchan, il produttore di Pretty Woman, americano nato in Israele, che avrebbe ispirato a Netanyahu la legge per abbattere le tasse ai miliardari di ritorno in patria. Ma sono più gravi le altre due inchieste che incombono. Il premier è accusato di scambiare favori con l’editore di Yediot Ahronot, il quotidiano più importante, e con il gigante delle telecomunicazioni Bezeq, proprietario di un sito web certo non ostile. Il procuratore generale che ha incriminato Bibi dopo essere stato suo capo di gabinetto, Avichai Mandelblit, ha subìto pressioni terribili: i nemici di Netanyahu l’hanno quasi aggredito all’ingresso della sinagoga dove andava a pregare per la madre morta; mentre la profanazione della tomba del padre è stata attribuita ai sostenitori del premier. In rete la battaglia è accesissima. La dirige il figlio Yair Netanyahu, che ieri per tutta la giornata ha lanciato un falso allarme – “non vedo mobilitazione…” – per motivare gli elettori del Likud. In passato Yair è stato bloccato da Facebook per incitazione all’odio verso i palestinesi. A differenza di Moshé Dayan, che aveva pianto raccontando a Sadat la morte in guerra del fratello Zorik, Bibi non ha mai esorcizzato il dolore, non ha mai perdonato agli arabi la sorte del fratello Yonatan, caduto a Entebbe alla testa del commando che liberò 102 ostaggi ebrei.
Detto questo, Netanyahu resta senz’altro il capo che meglio interpreta lo spirito del suo popolo in questo tempo. E’ anche il primo leader israeliano a non cercare la pace. A fare la pace con l’Egitto fu un premier di destra come Menachem Begin. Ma la prima volta in cui fu eletto, nel 1996, Bibi fece di tutto per non applicare gli accordi di Oslo. Alla vigilia delle scorse elezioni rovesciò i sondaggi proclamando che con lui non sarebbe mai nato uno Stato palestinese. Stavolta ha annunciato l’annessione di parte della Cisgiordania, assicurandosi gli elettori degli insediamenti.
Basta una passeggiata nella periferia di Gerusalemme Est, dove ortodossi e pionieri laici fronteggiano il mare arabo, per ricordarsi quanto il Paese si senta in bilico, e quindi coltivi un’identità fortissima. Certo il clima non è quello della guerra del 1967, quando si temevano decine di migliaia di morti, i campi incolti venivano requisiti e benedetti per farne cimiteri, e Radio Damasco gracchiava: “Con le budella dell’ultimo soldato imperialista impiccheremo l’ultimo colono sionista”. Ma lo spirito è rimasto lo stesso del discorso di trenta secondi che all’alba del 5 giugno il maggiore Yosef Salat, comandante della prima squadriglia spedita al Cairo a bombardare l’aviazione egiziana, tenne ai suoi uomini: “Siede con voi in cabina di pilotaggio il popolo di Israele, intere generazioni di ebrei, ognuno dei quali confida che farete del vostro meglio”.
Tre ore dopo, l’aviazione egiziana non esisteva più. Damasco si affrettò a nascondere i suoi caccia al confine con l’Iraq, fuori portata da quelli con la stella di Davide. Il comandante dell’esercito, Mordechai “Motti” Hod, guardò senza muovere un muscolo il suo capo di stato maggiore e gli disse: “Abbiamo vinto la guerra”. Il mattino del terzo giorno i parà entrarono in Gerusalemme dalla Porta del Leone e salirono al Muro del Pianto. Il quarto giorno Dayan prese il Sinai. Il sesto cadde la cima più alta del Golan. Il capo di Stato maggiore si chiamava Yitzhak Rabin, e il suo sogno di pace fu infranto da un assassino ebreo, Yigal Amir, chiuso da 24 anni in una cella con la luce accesa anche di notte, senza mai pentirsi. Le successive elezioni le vinse Netanyahu.
Non si comprende la sua lunga stagione senza sentire nell’aria l’eco di secoli di umiliazioni, molto più antiche della Shoah: i russi sfuggiti ai pogrom, gli ebrei di Palestina cui gli ottomani vietavano di andare a cavallo o a cammello: potevano montare asini, mai però a cavalcioni, solo con le gambe da una parte; i viaggiatori occidentali scrivevano allibiti che il gioco preferito dei bambini arabi era prendere a sassate i coetanei ebrei, e chiunque poteva sputare addosso a un ebreo senza che lui reagisse.
Ora a sentirsi umiliati, ovviamente in altre forme, sono i palestinesi. Sia quelli di passaporto israeliano, che hanno disertato le urne, sia quelli della Cisgiordania oggi occupata e domani annessa. Mai isolati come ora, abbandonati dai “fratelli arabi” che li hanno usati e ingannati. Se Netanyahu volesse passare alla storia come uomo di pace, potrebbe trovare lo scatto che riuscì a un altro falco, Sharon, quando si ritirò da Gaza. Ma a osservare i volti rassegnati dei camerieri di Jaffa e degli ambulanti di Gerusalemme, qui nessuno si aspetta più nulla; tantomeno quella cosa – patria, dignità, fierezza – che sarebbe riduttivo chiamare pace, ma fa pensare semmai a una donna molto amata, che non è venuta, non viene, non verrà.
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