Decimazione
Dopo quel bombardamento nulla sarà lo stesso per una delle più poderose nazioni del Medio Oriente. Nulla sarà lo stesso per nessuno dei suoi abitanti, e neanche per gli abitanti del resto del mondo. L’attacco all’Iraq avrebbe messo in moto una lunga scia di guerre vere e proprie, intersecate a eventi catastrofici – l’attentato delle Torri Gemelle del 2001; la seconda Guerra del Golfo il 20 Marzo del 2003, con la invasione dell’Iraq da parte di una coalizione occidentale a guida Usa, in cui cadde il regime (e più tardi anche la testa) di Saddam; il conseguente innescarsi di una lunga competizione di potere che tuttora dura e scava fra Sciiti e Sunniti, fra Iran e Arabia Saudita, dentro e fuori ogni paese della Regione; fino all’ultimo tragico evento, la guerra scatenata da Daesh, lo Stato Islamico che avrebbe cambiato, di nuovo, il volto dell’Iraq e del Medio Oriente.
Quel Natale del 1990 era pieno di ansia per tutto questo futuro che si intuiva oscuro. Ma, accompagnato da quella lingua stranamente suadente, a voltarsi oggi indietro, fu anche un momento di strana pace. Baghdad era ancora intatta, e i cristiani iracheni erano ancora una grande e potente comunità, composta da un milione e 200 mila, o, secondo altre stime, un milione e mezzo di persone. Comunità rispettata, integrata, con un carismatico ministro cristiano – Tarek Aziz – al governo, un livello di vita benestante, fatto di buone scuole, per figli e figlie, buoni lavori, molte relazioni internazionali specie in Europa e in America dove fiorenti comunità di cristiani già vivevano. Quello di Baghdad era un altro esempio di come i Cristiani in tutti i paesi mediorientali avevano cittadinanza e un indiscutibile ruolo, come in Palestina, in Siria, in Libano, in Egitto. Il loro sembrava allora un posto intoccabile, nella politica e nei sentimenti occidentali. Chi avrebbe potuto immaginare, anche scontando tutta l’ansia di quella vigilia di guerra, che nel 2003 Baghdad sarebbe caduta, che dopo pochi anni Saddam sarebbe stato impiccato, che Tarek Aziz sarebbe morto in carcere e condannato, e che i Cristiani nel 2014 sarebbero stati dispersi?
Nell’agosto del 2014 partendo da Fallujah, e aumentando man mano la sua forza, la nuova organizzazione islamista radicale dell’Isis, lo Stato Islamico, conosciuto in Arabo come Daesh, prende possesso del centro dell’Iraq. Conquista Mosul, la seconda città dell’Iraq, ne rapina le banche, si impossessa delle armi dell’esercito in fuga, prende il controllo dell’aeroporto e della enorme diga da cui dipende l’irrigazione di una parte rilevante del paese, e inizia una sistematica espulsione di ogni elemento che possa disturbare il suo controllo, o possa inquinare la sua idea di purezza islamica. È un cataclisma per tutto il paese. Ma Daesh non è un caso, né una invenzione casuale.
Alla base del nuovo gruppo terrorista ci sono la rabbia, il risentimento della pesante sconfitta subita dall’Iraq nella seconda guerra del Golfo, nel 2003. L’esercito di Saddam, forte, capace, ne esce sconfitto e smantellato, ma i nuovi padroni dell’Iraq, gli americani, non svilupperanno per questa forza mai una politica: né una Norimberga, né una rieducazione.
Il potere a Baghdad , dopo il 2003, passa semplicemente di mano, da Sunniti a Sciiti, premiando una parte della popolazione a lungo oppressa da Saddam, ma provocando anche un clima di vendette, e , soprattutto, di nuove ingerenze: l’Iran, con cui l’Iraq aveva combattuto una guerra decennale negli anni ’80, approfitta della situazione per riportare il suo peso nella politica interna dell’Iraq, nazione centrale per la produzione petrolifera, e centrale negli equilibri geografici e di alleanze, nella eterna lotta fra Sunniti e Sciiti, o, più semplicemente, fra Iran e Arabia Saudita. È l’avvio, come dicevo, di un nuovo periodo di guerre, che oggi raggiunge quasi i trent’anni, e che trascina a catena tutto il Medio Oriente, e i cui effetti continuano a pesare sul resto del mondo.
Ma per i Cristiani e per altre minoranze come quelle Yazida nell’estremo Nord, la serie di guerre dopo il 2003 è più di un cataclisma. È un vero e proprio tsunami. Che cresce nel tempo e che prima spinge nel 2004 fuori da Baghdad e verso il Nord migliaia di persone, verso la piana di Ninive, luogo di risonanza biblica, di profeti come Naum e figure mitiche come Jona della balena, santi e monasteri protocristiani. Poi nel 2014 arriva una nuova onda, sui pick up di Daesh, anche nella valle di Ninive, e i Cristiani si rimettono in moto stavolta fuggendo e basta. Dal mattino alla sera, da popolazione colta, benestante, consolidata parte di uno stato, si trasformano in una popolazione di profughi.
Oggi, cinque anni dopo, finita (davvero) la guerra all’Isis, sconfitta militarmente e sbaragliata ideologicamente, ci interessa sapere, è rilevante sapere, cosa è successo in questi ultimi anni a queste migliaia di cristiani?
Quando ho, a volte, posto domande come questa ad amici, a colleghi, ma, anche e soprattutto, quando le ho rivolte a vari uomini di Chiesa o a grandi intellettuali della laicità, mi è sempre stato risposto con un veloce “sì certo”, accompagnato anche sempre, però, da un lampo negli occhi, una sorta di ironico interrogativo che, tradotto, significava sorpresa. “È davvero interessante?”, sembra sempre dirmi quella sorpresa. “È davvero una importante questione?” mentre ogni paese incluso i nostri occidentali sono dentro una crisi profonda?
Pur non essendo credente la mia risposta è sempre stata un “sì” tondo, e lo è a maggior ragione ancora oggi.
Un “sì” sostenuto intanto dai numeri.
I numeri parlano. Nel 1990, dicevamo, c’erano in Iraq un milione e mezzo di cristiani. Nel 2014 l’onda di rifugiati cristiani che arriva nel Kurdistan, è composta, secondo dati forniti da diverse Chiese, da 350 mila persone. Cinque anni dopo, dopo la sconfitta di Daesh, quel numero si è ulteriormente assottigliato.
Khalid Jamal Alber, direttore generale degli Affari Religiosi del Governo curdo iracheno, ci dice che “a Mosul sono tornate 20 famiglie”. Il vescovo caldeo Warda calcola a spanne che ci sono “7.500 famiglie in Erbil, 8.000 nella piana del Ninive, a Bahgdad che è una grande città è difficile contare, ma pensiamo ce ne siano 20 mila”. Il calcolo finale del vescovo Warda è che in Iraq ci dovrebbero essere oggi 50 mila nuclei familiari. Una somma finale, a secondo dei numeri dei componenti, che va fra 140 mila e 170 mila. La cifra che forniscono le organizzazioni umanitarie internazionali, è esattamente di 146 mila Cristiani. Siamo di fronte a un decimo quasi esatto, delle cifre iniziali. Una decimazione, insomma.
Non fisica, perché non c’è stato un genocidio, anche se i morti sono stati tanti. Si tratta piuttosto di un diverso genocidio, che ha i caratteri della cancellazione culturale, di una tradizione identitaria, della radice comune dell’Occidente. I Cristiani e il cristianesimo, i libri, i manoscritti, i ritratti e le lingue che sono nati in questa parte del mondo e hanno nutrito il nostro mondo, oltre che la nostra fantasia collettiva, il nostro inconscio, se non la nostra ragione, i miracoli, i santi, i profeti, le apparizioni, i tormenti, i sogni, e, infine, il mito della rinascita che ci hanno regalato la religione cristiana, è una perdita che possiamo sostenere così, senza nemmeno domandarcelo?
Quando, nei miei diversi viaggi in Iraq in vari anni ho messo piede per la prima volta nella valle di Ninive, o ho trovato davanti a me la torre a spirale di Samarra, che richiama la nostra idea della torre di Babele, o sono entrata nella tomba del profeta Naum, ho riconosciuto come miei quei nomi. Davvero non ci interessa se vengono cancellati o meno?
Da queste domande nasce l’iniziativa dell’Huffington Post in corso in questi giorni. Il nostro sito ha proposto ai Francescani di Assisi di inviare una piccola missione, in questa settimana di Pasqua, sulle tracce di questo mondo in via di sparizione. Ne è nata una collaborazione che ha messo in moto una non numerosa ma efficiente operazione di ricerca che, grazie ai Francescani, e al loro inviato Padre Enzo Fortunato, aiutato da un gruppo di giornalisti, ha avuto un accesso senza precedenti a fonti e luoghi. Si sono aperti per noi chiese, conventi, archivi, restauri, case private, campi profughi. Abbiamo parlato con prelati di alto livello e semplici preti di campana, con solitari abati che si muovono in stanze ormai vuote di monasteri di pietra, e cocciuti difensori e ricostruttori di passato. Abbiamo visto rovine tante – tutte quelle lasciate dall’Isis che hanno bruciato, fatto esplodere, derubato case e chiese – da Mosul ad Alqosh, sotto le montagne. Siamo entrati nei tunnel costruiti da Daesh come rifugio e come postazione di guerra, e abbiamo incontrato le milizie cristiane costituitesi per difendere la popolazione dopo la sconfitta di Daesh. Abbiamo iniziato il 15 e finiremo il 23 aprile.
Quello che ne viene fuori è la resa di una intera parte della popolazione. I Cristiani hanno lasciato il paese alla spicciolata negli ultimi anni – chi poteva è partito. Sono andati in Francia e in Australia, e chi aveva famiglia in altri paesi l’ha raggiunta ovunque. In Iraq c’è solo un pugno di persone. E molte non di loro non intendono tornare nei paesi cristiani di origine. Cosa impedisce loro di tornare nella propria casa? È solo mancanza di lavoro, denaro, paura di altri attacchi, o è una profonda rassegnazione? E nel caso questa rassegnazione è la fine di ogni speranza per una religione che è fondata sulla rinascita? Sulle motivazioni di queste scelte ha lavorato Padre Enzo, e le risposte non sono sicuramente semplici.
Da parte mia, seguendo la vena razionale e limitata di noi laici, ben al di sotto di ogni indagine immateriale, ho lavorato sull’unico terreno che mi sembra incontrovertibile: la sicurezza. L’area da cui i Cristiani sono stati espulsi è una ampia fascia che si proietta verso la Siria, specialmente se si guarda anche al territorio dei Yazidi. È un’area su cui oggi comandano milizie Sciite, le stesse che hanno aiutato a combattere Daesh e che ora, con la copertura del Governo di Baghdad, che, ricordiamo, è a maggioranza Sciita, ambiscono ora a consolidare la loro vittoria, controllando definitivamente questa fascia, impedendo ai cristiani di riprendere le loro case, comprandone i terreni. Con il progetto di “cambiare la demografia di queste aree” come spiegano i cristiani della valle del Ninive.
Che si tratti di un passo dei tanti da parte dell’Iran di aumentare la sua influenza in Iraq e consolidare il corridoio di terra che va dall’Iran alla Siria, e da lì al Libano, sembra evidente. Anche su questo torneremo nel dossier che stiamo preparando.
Ma già da ora una conclusione è possibile: il ritorno dei Cristiani non è voluto, non è aiutato, non è un fatto casuale. Dunque, anche se non volessimo occuparci di loro, dovremmo occuparci delle loro disgrazie perché sono un campanello di allarme di una pace che non è stata fatta, di una pacificazione in Iraq di cui si parla molto, ma che non esiste. È un altro piccolo tessera di un puzzle che ci racconta che la guerra in Iraq non è finita, è solo entrata in una nuova fase. Di cui i Cristiani sono come gli uccellini che i minatori portavano nei pozzi perché fossero i primi, morendo, a segnalare la presenza del grisou.
L’HUFFPOST
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