Moral Dis-suasion
È chiaro che, in una situazione come questa, il capo dello Stato non può essere uno spettatore, disincantato e indifferente. Spettatore che osserva, ascolta, tiene per sé le sue valutazioni, se qualcuno ha la buona creanza di informalo bene, altrimenti fa lo stesso. E, avanti così, pronto a notificare un percorso di questo tipo senza neanche un battito di ciglia: assistere all’apertura di una crisi di governo, procedere a consultazioni spedite, se così desidera il capo della Lega che si sente il capo del paese, regalare agli italiani il divertimento dei comizi balneari arroventati anche dal calore dello spread, alle Corti d’Appello la gioia delle liste elettorali a Ferragosto, poi le elezioni il 22 o 29 settembre, di fatto già in piena sessione di bilancio, senza contare quanto tempo ci vorrà per far nascere il nuovo governo.
Dunque, un governo sovranista che avrebbe un programma non dissimile da quello che bloccò la nomina di Paolo Savona al Mef, in nome della tutela dell’interesse nazionale, e fondato su una maggioranza che poi, a quel punto, eleggerebbe il successore di Mattarella tra tre anni. Praticamente una mina piantata sotto l’edificio europeo, che farebbe passare alla storia l’attuale capo dello Stato come una sorta di Facta del XXI secolo, colui che ha spalancato le porte al più grande stravolgimento della collocazione geopolitica del paese nella storia recente. Di questo si sta parlando, quando si almanacca attorno all’eventualità del “che succederà” e “che farà” e del “che sta facendo Mattarella”. Di questo ordine di grandezza delle cose.
Ecco, anticipiamo subito la tesi di questo articolo, frutto di chiacchierate con fonti degne di questo nome e informazioni raccolte oltre le versioni ufficiali: l’arbitro, come tutti gli arbitri, non è sugli spalti a godersi lo spettacolo trangugiando pop corn. Ma è in campo. E, al netto delle coltre di silenzio e un po’ di sana ipocrisia le tracce della sua azione indicano, tutte, una sottile opera di “moral dis-suasion”, per evitare l’eventualità che, da settimane, alimenta una sorta di psicosi della politica italiana, l’effervescenza dei mercati, le preoccupazioni di quella rete di protezione nazionale e internazionale del paese, da Bankitalia di Visco alla Bce di Mario Draghi.
Dell’opera di dis-suasion è parte integrante la richiesta di “chiarezza” a Luigi Di Maio, a cui è stata tenuta una rapida lezione di economia a proposito del “baratro” che si spalancherebbe sul paese se il governo ingaggiasse la linea di “sforamento” dei vincoli di bilancio, su cui il vicepremier però non ha dato assicurazioni. Ma soprattutto la mossa di Conte, molto apprezzata lassù e molto valorizzata, secondo quella antica sapienza per cui sono importanti gli effetti che una mossa produce, non chi l’ha pensata. Anzi, la vera arte è indirizzare gli eventi, nella direzione auspicata come se fosse un moto spontaneo di ragionevolezza altrui. Perché è vero che l’avvocato del popolo è figura debole, priva di un’unzione democratica, goffa come i bizantinismi lessicali di un penultimatum, smontato da Salvini in un post veloce come un “me ne frego”, però è anche vero che l’abito rende utile il monaco e le sue dimissioni in nome del rispetto dei vincoli europei avrebbe l’effetto di far “schizzare lo spread a 400”, facendo precipitare il paese nell’emergenza. È pronto Salvini ad assumersi questa responsabilità o la tempesta annunciata rappresenta, proprio come è accaduto l’anno scorso di questi tempi, un grande disincentivo all’azzardo?
Diciamolo: Mattarella non è Napolitano. Non lo è di indole, formazione, cultura. Non lo è per il contesto, politico e parlamentare. Né vuole apparire come colui che esercita una supplenza o un contropotere rispetto a un governo in carica, anche perché è consapevole che, in tempi di anti-establishment, anche un timido indirizzo verrebbe interpretato come un’indebita ingerenza (ricordate con quale inconsapevole e pericolosa baldanza fu nominata la parola impeachment?) e avrebbe l’effetto della benzina sul gran falò della propaganda dei difensori del popolo che tutto possono in nome del popolo. Però è sbagliato pensare che, al dunque, un democristiano di sinistra sia più arrendevole di un comunista di destra e meno incline ad agire un ruolo, sia pur nell’ambito di una astuta guerra di posizione e non di movimento. E lo dimostra proprio questo giro di “pre-consultazioni” al Quirinale e l’aver sfoderato l’arma che, nel 2013, il comunista di destra non aveva perché gestì la crisi post voto in pieno semestre bianco: il potere di scioglimento delle Camere. È ciò che il Quirinale sta lasciando trapelare da giorni: “Se non ci saranno alternative, il capo dello Stato non potrà che prenderne atto e sciogliere”. Il che, formalmente non fa una piega. Ed esclude l’ipotesi che già il contesto rende impraticabile, come è accaduto con Carlo Cottarelli: un governo “tecnico” o del “presidente”, pensato al Quirinale e calato sul Parlamento.
Però l’eventualità non è un auspicio, né l’annuncio dell’inevitabilità di una ratifica. È una pressione, un ulteriore deterrente, teso a “stanare” Salvini, affinché da subito faccia chiarezza sulle sue reali intenzioni: se vuole consentire al paese di avere un governo nel pieno della sua operatività o se davvero ha il coraggio o l’avventurismo di giocare d’azzardo, in un’ottica del tanto peggio, trascinando il paese al voto. Se fosse una mano di poker equivarebbe a dire “vedo”. I bluff si svelano così.
L’HUFFPOST
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