“Evitare il fine pena mai. Calpesta i diritti umani”. Il regalo dell’Ue ai boss

Strasburgo la pensa diversamente e si mette di traverso con un ragionamento che va oltre: la scelta di abbandonare il circuito del malaffare non sempre è «libera», perché alcuni condannati temono che il loro pentimento metta a rischio «le loro vite e quelle dei loro familiari». Inoltre, la collaborazione non implica automaticamente che il detenuto «non sia più fedele a valori criminali o abbia tagliato i ponti con organizzazioni di tipo mafioso». Insomma, ogni essere umano è più grande del male che ha compiuto e in qualche modo questo dato dev’essere riconosciuto. Ci dev’essere uno spiraglio di luce in fondo alla macerazione in cella.

Lo Stato italiano ha un altro punto di vista: non basta la coscienza dei disastri compiuti, ci dev’essere un passo in più, qualcosa di concreto e tangibile, appunto l’abbandono del sodalizio criminale.

Strasburgo in verità lascia ai singoli stati la facoltà di decidere la pena massima: possono essere trent’anni, pure quaranta, l’importante è che la fine della pena non coincida con la morte di chi la sconta. E questo, obiettivamente, pare ragionevole.

La storia che sta all’origine di questa querelle è quella di Marcello Viola, condannato negli anni Novanta per omicidi, sequestri di persona, associazione mafiosa e oggi, a quanto sembra, una persona diversa. Ma la buona condotta non è sufficiente per riguadagnare la libertà che gli è sempre stata negata. Ci vorrebbe qualcosa in più, ci vorrebbero i nomi, pagine e pagine di verbale, il racconto di quel mondo e di quelle sciagurate imprese.

Così Viola non si muove, ma per la Corte «è inammissibile privare le persone della loro libertà senza impegnarsi per la loro riabilitazione e senza fornire la possibilità di riconquistare quella libertà in una data futura». Magari lontana, ma certa. A tutela della loro dignità.

Viola resta in carcere e nessuno mette in discussione il suo curriculum ma Roma dovrà dargli 6mila euro come indennizzo per avergli inflitto un trattamento «inumano e degradante». La questione non è chiusa: il 22 ottobre la Consulta si pronuncerà ancora su questo spinosissimo tema.

IL GIORNALE

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