Un omaggio a una finta unità
A volerla leggere ricorrendo ai classici, è difficile non scorgere un’antica sapienza morotea, in questo metodo di Zingaretti che, al dunque, evita lo strappo, ricompone in nome dell’unità, predilige l’evoluzione graduale alla dialettica. C’è, sempre a volerla leggere con i classici, tutto questo nelle dimissioni di Lotti ottenute senza chiederle, e lodate, anche oggi, come un gesto di “responsabilità” che “preserva la credibilità del partito in un momento più delicato”.
E se l’obiettivo era quello di uscire dalla direzione con un partito almeno non formalmente diviso e lacerato, questo obiettivo è stato raggiunto, sia pur con una dose di fisiologica ipocrisia e tanti non detti, al limite del surrealismo con Lotti che resta, nel corso del dibattito, pressoché “innominato” e senza che sia stato affrontato lo scandalo che da giorni riempie le pagine dei giornali. L’obiettivo, dicevamo, è stato raggiunto ricorrendo all’armamentario retorico più classico: in nome del pericolo di una destra rocciosa e incombente, della necessità di preservare l’unico baluardo democratico, nella riscoperta (a parole) dell’antica “vocazione maggioritaria”, in tante dichiarazioni di principio condivise anche dalle minoranze spaventate dal ritorno al voto, ossessionate dal retro-pensiero delle liste, spaesate dall’abbandono del loro ex leader, Matteo Renzi che, da questa vicenda che ha coinvolto il suo braccio destro (e sinistro), esce indebolito pure lui. A ben vedere, proprio i suoi compagni di corrente hanno evitato di immolarsi in una crociata per difendere l’onore di Lotti, sacrificando il granitico garantismo sull’altare dell’opportunità politica.
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