Lettera, manovretta e bisticci

È una giornata convulsa. Giuseppe Conte riunisce di buon mattino Luigi Di Maio, Matteo Salvini e Giovanni Tria per fare il punto. Nessuno parla, e nessuno lo farà per ore, nemmeno a microfoni spenti. Qualcosa è successo. Meno di un’ora di vertice e il premier schizza alla Camera dove si tiene l’informativa sul Consiglio europeo di giovedì. Viene lasciato solo, così come lo sarà nel pomeriggio al Senato, dai suoi due vice, assenti nei banchi del Governo. In mezzo un passaggio fondamentale: un pranzo al Quirinale, di rito, per fare il punto, soprattutto sul versante europeo. Quando scende dal Colle e arriva a Palazzo Madama scopre una carta chiamata “assestamento di bilancio”. “Lo faremo stasera”, dice. Manca però un passaggio tecnico, il giudizio di parifica del rendiconto, che avverrà il 26 giugno.

Ecco la vera data per l’assestamento di bilancio. E l’altra partita ancora tutta da giocare. Perché il Tesoro quel tesoretto lo vuole mettere tutto sull’abbattimento del deficit, come il ministro stesso ha spiegato al Financial Times chiaro e tondo. Mentre i 5 stelle e soprattutto la Lega da quell’orecchio non ci sentono: “Non ha senso pagare una mini rata di una casa che sai che non potrai mai comprare – la metafora usata – i risparmi devono essere messi su taglio delle tasse e investimenti”.

Una situazione da sasso sull’alveare. Montecitorio brulica di conciliaboli, alla Camera va in scena uno psicodramma sul decreto crescita. Il capogruppo 5 stelle Francesco D’Uva parla fitto fitto con il ministro degli Esteri Enzo Moavero, tacciato d’intellighenzia con il tecnico Tria dai pasdaran gialloverdi. Al Senato sono Maurizio Romeo e Stefano Patuanelli a confabulare, mentre il professor Alberto Bagnai passa schivando le domande sull’Europa (“Non mi occupo di queste cose”), salvo prendere la parola cinque minuti dopo in aula per ricordare a Conte che “non è il debito l’unico indicatore dello stato di salute di un Paese”.

Fuori dalle aule parlamentari la temperatura è altrettanto bollente, come la canicola che attanaglia Roma. Perché al Tesoro come a palazzo Chigi si lavora a quella che è una concessione che mette in crisi una già ondivaga e fragile politica economica. Una politica sui conti pubblici che è andata sulle montagne russe in appena un anno, dal balcone di palazzo Chigi con Luigi Di Maio a celebrare il 2,4% agli impegni che bisogna mettere in campo ora per abbassare drasticamente lo stesso deficit. Perché al netto della volontà di Salvini alla fine bisogna giocare – almeno fino a quando non si conosceranno i nuovi equilibri – con le regole europee che ci sono. E va bene rivendicare spazi di deficit abnormi, ma se prima si chiede e si ottiene un maxi deficit per finanziare le misure bandiera e poi quelle stesse misure si riducono in portata, allora un problema di controllo della macchina, e anche serio, c’è. 

Il pegno che il Governo ha deciso di pagare subito all’Europa ammonta a due miliardi. Erano stati congelati con la manovra di dicembre, ma le possibilità che potessero uscire dal freezer per essere utilizzati si sono fatte sempre più illusorie e fragili nel corso dei mesi. Perché il Pil – solo per citare una causa – non è decollato come pensava lo stesso esecutivo, ma anzi è sprofondato intorno allo zero. E i conti si sono sempre più deteriorati. Ora queste possibilità vengono archiviate scrivendo nero su bianco che questi due miliardi finiranno nel cestino dei sogni di gloria di Lega e 5 stelle. Andranno a calmierare il deficit se questo pegno lo si legge nell’ottica economica. Marceranno in direzione Bruxelles se il ragionamento si sposta sul piano politico. Questi due miliardi c’erano e ora non ci sono più. Ma dato che questi soldi erano stati destinati a qualcosa nel bilancio, si capisce evidentemente che questo qualcosa ne risentirà. Si chiamano tagli. Riguarderanno le imprese, il trasporto pubblico, le Forze armate, l’istruzione. Conti alla mano è quasi mezzo miliardo in meno per gli incentivi destinati alle imprese, 150 milioni non andranno più alle politiche di sviluppo, competitività, responsabilità sociale d’impresa e movimento cooperativo. I trasporti si vedranno destinare 300 milioni in meno e 150 milioni non andranno più alla pianificazione delle Forze armate. E poi ci sarà una riduzione di 70 milioni delle risorse per l’istruzione universitaria e post universitaria. 

Ma per portare il deficit dal 2,4% al 2,1%, come si vuole promettere a Bruxelles, bisogna fare molto di più. Oltre alle voci cosiddette “positive”; cioè le entrate, quindi soldi che arrivano dall’esterno come dalla cosiddetta pace fiscale, c’è da mettere sul piatto altre risorse. E qui entrano in gioco i risparmi delle spese previste per il reddito di cittadinanza e la quota 100. Quest’anno come il prossimo perché la procedura d’infrazione si lega anche al 2020: Bruxelles vuole un impegno serio che non sia estemporaneo. Lo schema messo su va verso un taglio di 3 miliardi quest’anno (2 miliardi di tagli alla quota 100 e 1 miliardo al reddito) e di 3-4 miliardi il prossimo. Ma prima serve il via libera di Salvini e Di Maio. Va bene pagare adesso per provare a incassare dopo, con la speranza di una nuova Europa e di spazi ancora più larghi di deficit, ma il conto non può essere evidentemente troppo salato. La politica prova a imporre il suo realismo che ancora non combacia con quello di Bruxelles.  

L’HUFFPOST

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