L’idea di sacrificare Giorgetti per spremere l’alleato in difficoltà

Se c’è un tema su cui, a parte le tonalità di colore, il populismo giallo e il sovranismo verde sono sempre andati d’accordo, è proprio il rapporto impostato su una dialettica dura con la Ue. Per cui è difficile che Salvini e Di Maio per far felici gli euroburocrati di Bruxelles facciano una crisi a Roma: sarebbe come dargli ragione. Né tantomeno è razionale immaginare che nei piani di Salvini e Di Maio ci sia una crisi concordata, con conseguente ricorso alle urne, per non assumersi la responsabilità della legge di bilancio. Se una siffatta logica avesse un senso in questi anni avremmo avuto tante elezioni e nessuna legge di bilancio: un simile comportamento per una coalizione sarebbe l’ammissione più plateale di non essere all’altezza del governo del Paese. «Sono i soliti luoghi comuni osserva un altro leghista, Alessandro Benvenuto, presidente della Commissione Ambiente di Montecitorio – che diventano assiomi, che non chiudono mai il cerchio di un ragionamento».

Certo poi restano Conte, Tria, cioè i cosiddetti «scudi». O Sergio Mattarella che predica prudenza. E, soprattutto, i numeri, che giri e li rigiri per la Ue, per fior di economisti, per gli oppositori da Bersani a Brunetta, non tornano. Ma quelli non erano a posto neppure in passato, e siamo di fronte, per chi non l’avesse ancora capito, a un governo (e a una maggioranza) «dadaista», che rifiuta gli standard economici, li camuffa: poco più di sei mesi fa i gialloverdi nel confronto con la Ue in certi casi la memoria aiuta – si erano trincerati su un rapporto deficit/pil del 2,4%, che però nel giro di una notte si trasformò in un 2,04%. E in fondo la lettera di risposta alla Ue non è forse un esempio di «dadaismo» applicato all’economia: Bruxelles chiede impegni e cifre, Roma risponde con congetture e rimproveri. Una lettera su cui sono d’accordo Conte, Tria, leghisti e grillini, che tutti insieme, più o meno appassionatamente, su un punto sono d’accordo: durare. «Intanto facciamo passare questi due mesi teorizzava due giorni fa sulla piazza di Montecitorio, Rocco Casalino, l’inventore di quel gioco di prestigio che in una notte trasformò il 2,4 in 2,04% – per chiudere la finestra elettorale. Poi si vede».

Poi si vede, appunto. Partendo dal presupposto che sia i gialli sia i verdi interpretano il rapporto con l’Europa ispirandosi all’eclettismo di Salvator Dalì. Non hanno tabù: basta pensare che al Senato c’è un progetto di legge firmato dal capogruppo leghista, Romeo, e da quello grillino, Patuanelli, che modifica le regole di nomina dei vertici di Bankitalia e attribuisce al Parlamento il potere di modificarne lo Statuto. Un tempo sarebbe stata considerata una mezza bestemmia. «Sulla Ue ammette il grillino, Luca Carabetta noi e i leghisti, a parte la sfumature, la pensiamo uguale. Stessa filosofia. E se a Bruxelles vogliono che il governo di Roma vada in crisi, noi certo non li faremo contenti. Eppoi anche a Roma piano piano le cose si aggiustano. Giorgetti andrà a fare il Commissario a Bruxelles, ormai lo dicono tutti, e al suo posto magari andrà Nicola Molteni».

Già, Giorgetti, il più convinto assertore della rottura con i grillini. L’altro giorno quando nell’assemblea della Confartigianato Salvini dal palco disse che nella platea era presente il prossimo Commissario Ue italiano, l’attuale sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, seduto in prima fila, confidò ad un amico: «Ho la vaga sensazione che mi vogliano togliere dai coglioni il che però non mi dispiace per niente». Un sarcasmo che svela un’interpretazione tutt’altro che campata in aria: una scelta del genere, infatti, al di là del valore del personaggio, risponde ad una logica di stabilizzazione. «Con le dovute distanze ironizza il piddino Andrea Orlando Salvini con Giorgetti ripete quello che fece Bettino Craxi con Antonio Giolitti: lo mandò in Europa per non averlo a Roma a rompergli le scatole mentre si legava alla Dc». L’idea della «rottura» con i grillini, quindi, per ora è accantonata. Spiega Edoardo Ziello, leghista di Pisa: «Noi a volte strappiamo con i grillini ma solo per ottenere di più. Loro l’altro giorno si sono ingarbugliati su un emendamento che toglieva fondi al ministero della Lezzi. Noi per riparare gli abbiamo chiesto il via libera al disegno di legge sull’Autonomia in consiglio dei ministri e l’immunità penale per chi lavora alla riqualificazione dell’Ilva. E loro alla fine hanno detto sì».

In questa atmosfera una crisi di governo, magari con la complicità di Bruxelles, è una variante remota. Non la ipotizza più Silvio Berlusconi che ai suoi parlamentari ha spiegato: «Non si vota a settembre, forse a marzo». E non la immaginano neppure i più assidui frequentatori del Quirinale. «A Montecitorio confidava due giorni fa Pierluigi Castagnetti ancora parlano di urne, ma io non ci credo. Salvini non può dire oggi che il governo dura quattro anni e fra dieci giorni aprire la crisi. Lo prenderebbero per matto».

IL GIORNALE

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