Ospedali pubblici, code per tutti ma non se paghi. La mappa Regione per Regione
Cosa dice la legge (non applicata)
Il sistema sanitario nazionale deve garantire una prestazione in 72 ore se urgente, entro 10 giorni se c’è il codice «breve», entro 30 giorni per una visita e 60 per un esame se è differibile, e ancora entro 180 se è programmata (dal 2020 entro 120). È il medico che al momento della prescrizione indica il codice di priorità sulla ricetta. Se l’attesa è più lunga, e troppo spesso lo è, c’è un decreto legislativo — il 124 dell’aprile 1998 — che prevede: «Qualora l’attesa della prestazione richiesta si prolunghi oltre il termine (…), l’assistito può chiedere che la prestazione venga resa nell’ambito dell’attività libero-professionale intramuraria, ponendo a carico del sistema sanitario la differenza tra la somma versata a titolo di partecipazione al costo della prestazione e l’effettivo costo di quest’ultima, sulla scorta delle tariffe vigenti». In sintesi vuol dire che è possibile utilizzare la libera professione dentro l’ospedale pubblico e pagare solo il ticket. La norma di fatto non è mai stata applicata perché sconosciuta ai pazienti. La ministra alla Salute Giulia Grillo l’ha appena rilanciata come una novità, ma sulla fattibilità non è ancora dato sapere. Ad esempio a Milano viene applicata, ma solo se non c’è un appuntamento disponibile nel raggio di 100 chilometri e non nell’ospedale dove uno vuole prenotare. Se la modalità sarà questa suona un po’ come una farsa.
I tempi di attesa a pagamento
Intanto la libera professione, prevista per dare la possibilità al paziente di scegliere il medico di fiducia, di fatto diventa l’unica strada per tagliare la coda. Emerge chiaramente dalla ricognizione sui tempi di attesa a pagamento che il ministero della Salute ogni anno fa su due mesi campione (ottobre e aprile) e che Dataroom ha potuto leggere. Le prestazioni più richieste sono: la visita cardiologica, garantita al 60% entro i 10 giorni; la visita ginecologica al 58%, la visita ortopedica al 67%, la visita oculistica al 48%. Per le prestazioni strumentali: ai primi posti c’è l’elettrocardiogramma, per il quale il 62% degli appuntamenti è garantito entro 10 giorni; per la Tac e risonanza magnetica la percentuale sale a oltre l’80%.
Chi visita in libera professione
I 51 mila medici che scelgono di esercitare la libera professione sono gli ospedalieri che, finito il loro turno di 38 ore a settimana, vedono i malati a pagamento nella stessa struttura pubblica. Il principio è sancito dalla riforma di Rosy Bindi (la 229 del 1999), approvata con l’obiettivo di evitare che per le visite a pagamento i pazienti si rivolgessero alle cliniche private. Questo per esercitare un maggiore controllo sull’attività privata dei medici. A vent’anni di distanza il bilancio è che, per consentire la libera professione dentro l’ospedale, il Servizio sanitario mette a disposizione gli sportelli per le prenotazioni, gli ambulatori, i macchinari e la loro manutenzione. Poi l’80% della parcella va al medico che prende anche l’indennità di esclusiva di 11.200 euro in media l’anno, mentre all’azienda ospedaliera resta il 20%. Sono complessivamente 238 milioni l’anno su 1 miliardo e 120 milioni di incassi per l’attività privata dentro le sue mura, ricavi con cui forse non vengono coperte neppure le spese.
Lo stipendio dei medici
Eliminare la libera professione in Italia, però, è un tabù per la classe medica anche perché con l’attività privata si può arrivare a raddoppiare lo stipendio. Del resto il servizio sanitario nazionale paga poco i medici ospedalieri rispetto al resto d’Europa. La media italiana va dai 3 mila lordi mensili per gli specializzandi ai 4 netti per un cinquantenne senza incarichi da primario. Per l’Ocse la busta paga media di un medico in ospedaliero in Francia è di 85 mila euro lordi, in Germania di 147 mila, in Olanda di 158 mila. In Italia è di 81 mila euro lordi.
Poca trasparenza
La conseguenza è che le liste d’attesa continuano a essere lunghe in un sistema che manca anche di trasparenza, condizione essenziale invece per risolvere il problema. Un report del Gimbe dello scorso aprile mostra che solo 8 Regioni più Bolzano hanno portali interattivi accessibili pubblicamente e senza autenticazione come prevede la legge: ma di queste Emilia Romagna, Lazio, Toscana espongono i tempi massimi di attesa per ciascuna prestazione senza dire al paziente qual è la prima disponibilità; mentre le altre 6 (Provincia autonoma di Bolzano, Basilicata, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta) permettono di conoscere per ciascuna prestazione la prima disponibilità nelle varie strutture, senza però offrire alcuna rendicontazione pubblica sulle performance regionali. Per le altre Regioni i dati pubblicati sono addirittura incomprensibili o assenti (Calabria).
La svolta che manca
Ora la ministra Grillo dice alle Regioni: «Se non riuscite a smaltire le liste d’attesa, allungate gli orari negli ospedali pubblici e stop alla libera professione». Difficile immaginare che i medici accettino doppi turni per smaltire le liste d’attesa, senza un’integrazione di stipendio, più probabile che facciano le valige. Occorre fare il passo successivo: pagare meglio i medici, rimpiazzare chi va in pensione, cosa che non viene fatta dal 2010 da quando sono stati persi 5.700 ospedalieri, in modo da fare viaggiare ambulatori e diagnostica a tempo pieno per il Servizio sanitario nazionale. Per fare questo occorre trovare le risorse, magari incassando l’80% e non il 20 % dalla libera professione interna agli ospedali, riparametrando il ticket in base al reddito e tagliando gli sprechi. Un caso su tutti, già denunciato da Dataroom: lo Stato continua a pagare agli imprenditori della sanità privata convenzionata fino a tre volte il costo degli esami che eseguono per il Servizio sanitario nazionale perché equipara le tariffe di rimborso a quelle del pubblico. Cosa che ci può stare per i grandi ospedali accreditati, che hanno il Pronto soccorso e curano i tumori, ma non certo per gli «ambulatorifici» dove vengono fatti esami del sangue, risonanze, tac ed ecografie dalla mattina alla sera, senza offrire nessun altro servizio. Se gli imprenditori privati puri — che non sono certo dei benefattori — riescono a garantire ai cittadini una risonanza magnetica a 59 euro, con strumenti di alta gamma e a guadagnarci, perché lo Stato, tramite le Regioni, ne deve pagare 188 agli imprenditori convenzionati? Il risparmio, solo su questo si aggira sui 2 miliardi l’anno.
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