Lo sbarco sulla Luna grazie allʼitaliano Rocco Petrone: la “tigre di Cape Canaveral” che salvò la missione con un bullone
Al centro della “stanza dei bottoni” che guidava la missione c’era lui, Petrone. Sotto il suo comando quasi 500 persone, tese come corde di violino. “Proibito sbagliare o, peggio, divagare” era il suo mantra, si legge nel volume di Cantore. Famose le sue sfuriate e le passeggiate per
la sala 40 minuti prima del lancio, per controllare che tutti
restassero concentrati anche dopo ore di lavoro. “Non saremmo mai
arrivati sulla Luna in tempo o, forse, non ci saremmo mai arrivati senza
Rocco Petrone”, ha raccontato Isom “Ike” Rigell, ingegnere capo del Kennedy Space Center e addetto alle operazioni di lancio.
Per compiere qualcosa di sovrumano serviva qualcuno che fosse più di un uomo. Chi lo ha conosciuto, descrive Petrone come un omone dallo “sguardo bonario e acuto”, dotato di una memoria mirandolesca (si dice fosse in grado di ricordare a menadito intere pagine lette giorni e giorni prima) e di un’intelligenza assolutamente fuori dal comune. Rimasto orfano di padre all’età di sei anni, rischiò davvero di tornare nella minuscola Sasso di Castalda,
in provincia di Potenza, riportato all’ovile da una madre disperata. E
invece no. Petrone ribaltò tutti i pronostici, così come ribaltava gli
avversari sul campo da football. Si dice fosse il
“mago” dei placcaggi sulla linea di difesa. “La via che conduce alla
Luna – diceva – è pavimentata di mattoni, di acciaio e calcestruzzo”.
Come quella che l’ha condotto verso il suo straordinario destino: dai
lavori umili per pagarsi l’Accademia di West Point alla laurea in ingegneria al Mit, alla chiamata al Pentagono.
Era a capo di una equipe di tecnici e ingegneri: un esercito di 20mila persone
Il suo libro Dalla Terra alla Luna, ma anche
dal Vecchio al Nuovo Mondo, perché quello di Petrone è davvero il sogno
americano. Un uomo partito dal nulla e arrivato sul tetto del mondo, nel
senso più letterale che c’è…
Assolutamente sì. E tutto
in una generazione. Cioè passano solo 48 anni da quando Antonio e Teresa
Petrone, due emigranti, passano da Sasso di Castalda a quando il loro
terzogenito dà il via alla più importante missione della storia
dell’umanità. Se non è sogno americano questo
Infatti
lo soprannominavano anche “il computer con l’anima”, “la tigre di Cape
Canaveral”. Gli epiteti attribuiti a quell’ingegnere di un metro e 90
sono tutti meritati? Di cosa è stato capace praticamente?
Facciamo qualche numero, per capirci. Era a capo di una equipe di
tecnici, gran parte giovani ingegneri, e non meno di 20mila persone.
Tante ce n’erano fra dipendenti della Nasa e dei contractors delle
società collegate che lavoravano direttamente alle dipendenze di
Petrone, che era, fino alla partenza dell’Apollo 11, il direttore del
lancio e della missione. Detta così sembra semplicemente quello che sta
al centro della sala di controllo e dà il via, ma non è proprio così.
Lui era il responsabile di tutte le operazioni che si svolgevano al
Kennedy Centre dal momento in cui arrivavano i pezzi per costruire il
Saturn V, qualcosa come sei milioni di pezzi, fino al momento in cui il
veicolo spaziale veniva lanciato. Era un lavoro di circa cinque mesi.
Perché la tigre? Perché svolgeva un lavoro per il quale doveva essere un
uomo duro, richiedeva la massima precisione e attenzione da parte di
tutti. Anche il più piccolo errore poteva essere fatale, ecco perché ci
voleva una tigre a comandare il tutto.
Infatti era solito ripetere “Vietato
sbagliare o, peggio, divagare”. Qual è stato il ruolo di Petrone
nell’allunaggio vero e proprio e quanto è stato importante per Las
riuscita della missione?
Petrone era il responsabile del
veicolo spaziale che arrivò sulla Luna. Diciamo che il suo compito
principale era di farlo partire. Anche qui detto così sembra uno
scherzo, ma il veicolo spaziale partiva solo dopo che l’immensa macchina
tecnologica, alta 110 metri e pesante tremila tonnellate, era stata
costruita e controllata pezzo per pezzo. Il ruolo di Petrone era quello
di dire l’ultima parola sul fatto che tutto era ok e che la missione
poteva aver luogo.
Come ha fatto un ragazzo dal nome italiano a entrare nell’Accademia militare americana e in piena guerra per giunta?
Questi sono da una parte i disegni sorprendenti della storia,
dall’altra un poi’ l’America. Perché l’America è un Paese con mille
contraddizioni, però alla fine sa dare opportunità e sa riconoscere i
talenti. Rocco Petrone rimase orfano a sei mesi, quindi l’apoettavs una
vita di sacrifici terribili, al punto che la madre aveva pensato di
tornare indietro coi suoi figli. Ma per fortuna li aiutò la comunità
italiana e andarono avanti. Rocco aveva un’intelligenza vivacissima e
una memoria straordinaria: raccontano che fosse in grado di citare
pagine e pagine intere lette decine di giorni prima. Dimostrò subito
grandi doti intellettuali e anche un grandissima capacità di leadership,
notate dai suoi professori alla scuola superiore. Avrebbe potuto
intraprendere il suo percorso nei più prestigiosi college americani,
però non c’erano soldi a casa Petrone. Allora i suoi professori andarono
dal deputato della circoscrizione di Amsterdam, la cittadina nello
Stato di New York in cui viveva Rocco, e gli chiesero di stilare
l’appoint, cioè la segnalazione necessaria per partecipare alla
segnalazione all’Accademia di West Point. Petrone vinse agevolmente
perché era molto bravo e l’America lo accettò nonostante il cognome, che
più italiano non si può, quando gli italiani erano nemici. Forse questa
storia ci insegna qualcosa…
Poi si racconta fosse un asso del football, anche questo contribuì alla sua fortuna…
(ride) Lui era il defensive tackle della squadra di West Point che vinse il campionato degli Stati Uniti, uno squadrone osannato dai giornali e seguito da tutti. Petrone si posizionava sulla linea di difesa e spezzava l’azione d’attacco degli avversari con micidiali placcaggi. Un’esperienza che contribuì ad aumentare la sua fama di duro, tanto che i suoi collaboratori, scherzando ma anche temendolo molto, dicevano di stare attenti perché mr. Petrone era in grado di placcare in maniera letale. E qualche volta lo fece. Una volta, di fronte a un altro dirigente della Nasa, prese un giovane ingegnere e lo sollevò di peso e lo cacciò fuori dalla stanza perché aveva dato una risposta non precisa a una domanda.
Cosa ne è stato di Petrone dopo il successo della missione?
Dopo l’allunaggio Petrone ebbe una carriera straordinaria. Fu richiamato a Washington e nominato subito direttore dell’intero programma Apollo. Quando, nel 1972, la Casa Bianca decise di non tornare più sulla Luna, Petrone andò in Alabama nello Space Centre che era una delle scuole di ricerca spaziale più avanzate dell’epoca e prese il posto di Wernher von Braun, cioè del padre della ricerca spaziale americana. Dopo ancora divenne amministratore associato della Nasa, cioè il numero tre della più grande agenzia spaziale del mondo. Poi lasciò la Nasa per dedicarsi ad altri progetti fino a diventare presidente della società che ha realizzato il celeberrimo Shuttle.
Qual è stato il segreto di tanto successo?
Petrone stesso diceva che era tutto merito dello studio della storia. Infatti quando si ritirò nella sua piccola tenuta sul mare in California, si dedicò allo studio della Guerra civile americana perché diceva che la storia insegna molto di più rispetto ai numeri e alla tecnologia. ‘Non ci sarà mai un algoritmo in grado di spiegarci come ha fatto l’uomo, nel giro di poche migliaia di anni, a passare dalle caverne alla Luna’, diceva Petrone. Questo ce lo può spiegare solo la conoscenza di questa macchina straordinaria che si chiama uomo.
Quanto ha contato l’Italia nella storia di Petrone. Era legato al suo Paese d’origine, alla Basilicata?
Quando i grandi inviati dei media italiani, compreso Tito Stagno, arrivavano a Cape Canaveral si trovavano di fronte a una sfilza di nomi stranieri: otto erano tedeschi, lo squadrone di von Braun, un paio erano vagamente anglosassoni e poi c’era questo nome italianissimo, inequivocabile. La prima domanda che gli fecero fu ‘Ma lei è dei nostri?’. E Petrone rispose anche con qualche parola in dialetto, appresa in casa. ‘Sono di Sasso di Castalda, in provincia di Potenza’, disse. Ricordava sempre volentieri questa sua origine italiana. Anche da giovane militare, quando fu mandato in Europa dopo gli studi a West Point, andò in visita due volte a Sasso di Castalda. I suoi cugini, alcuni ancora in vita, ricordano benissimo la visita di questo ragazzone in divisa da ufficiale americano che ricevette grande accoglienza. Non era però l’americano che loro si aspettavano, cioè un po’ spaccone e pieno di dollari, ma anzi si trovarono di fronte una persona rigorosa e seria. Al punto che Petrone disse di non ritrovarsi nello stile di vita di quella gente che perdeva tempo al bar a fumare e a chiacchierare. Anche se poi non tornò più in Italia, mantenne questo legame in qualche modo: si racconta che mandasse sempre gli auguri di Natale a questi cugini. E dopo la missione Apollo 11, quando divenne più famoso, fu nominato Commendatore della Repubblica dall’allora Presidente Giovanni Leone. La sua italianità fu sottolineata anche in questo modo.
Nel libro sono riportati alcuni aneddoti “curiosi” della vita di Petrone. Ce n’è qualcuno più “curioso” degli altri?
Ce ne sono due: uno che spiega l’importanza di avere Petrone al centro della sala di controllo e un altro che descrive il suo lato più umano e sensibile. Partiamo dal primo, un episodio poco noto e tralasciato nel turbinio della festa per il successo della missione. Alle 5 del mattino – l’Apollo era partito alle 21:32 – alcuni responsabili del progetto andarono a chiamare Petrone, che si era un attimo allontanato dalla sala. Quella notte non dormì nessuno, sia chiaro. I monitor aveva segnalato un piccolo sbuffo, una nuvoletta di fumo che usciva da quell’enorme bestione del Saturn V. Erano tutti spaventosissimi. Petrone arrivò lì e capì subito che si trattava di una perdita di idrogeno liquido. In quelle condizioni gli astronauti non potevano salire a bordo. Rocco però fu l’unico a ricordarsi di un particolare e mandò la sua squadra a controllare un punto preciso, una delle migliaia di valvole che costituivano il veicolo spaziale. Uno dei sei bulloni che stringevano la valvola era leggermente meno lungo degli altri. Un tecnico si era distratto, Petrone no. Grazie a questa intuizione furono rispettati i tempi della missione, evitando così una figuraccia epocale agli Stati Uniti. L’altro episodio degno di nota lo racconta Jack King, lo speaker ufficiale della Nasa. Durante uno dei tanti lanci a Cape Canaveral, avvertirono Petrone che sul luogo del lancio aveva fatto il nido una coppia di uccelli, due aironi. I suoi collaboratori, nel dirglielo, temevano una delle sue proverbiali sfuriate, e invece Petrone li sorprese. Bloccò il conto alla rovescia, mandò due macchine della security a spaventare gli uccelli per farli volare via e soltanto dopo riprese le operazioni di lancio. Uno scatto di umanità che non ti immagini da parte di un uomo che veniva chiamato “il computer”.
TGCOM
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