La manina tedesca nella nuova guerra fredda ai populisti
La vicenda dei rapporti Lega/Mosca, comunque la si voglia interpretare, fuori dall’Italia ha colpito perché segnala alle elite della politica estera occidentale la necessità di fare, dopo le recenti elezioni per il governo di Bruxelles, i conti con il nuovo assetto interno dell’Europa e dei rapporti inter-atlantici. Nei sensibilissimi think tank americani, o nelle sfere dei professionisti della politica globale, alcune novità sono state immediatamente registrate. Va detto anche che, al momento, alla domanda su chi abbia incastrato Salvini nessuno ha risposta certa, ma solo serie ipotesi.
E ogni ipotesi sull’attuale Europa ha un solo possibile inizio: la Guerra Fredda, che ha forgiato l’Unione attuale, e di cui memoria, passioni, e strumenti costituiscono ancora oggi la struttura di fondo. Quello che gli europei hanno oggi come influenza politica e come agibilità operativa nel continente, ricalca in buona parte infatti, ancora, le tradizionali aree di influenza della varie nazioni, in alcuni casi quelle di radice imperiale, e più di recente, dopo la Seconda Guerra Mondiale, quelle economiche e culturali. Così la Francia ancora mantiene una infrastruttura, anche di intelligence, in Africa e in parti del Medio Oriente francese, la Gran Bretagna gioca alla grande in Medio Oriente e nell’area subcontinentale del far east, l’Italia è a casa in parti del Nord Africa, e la Germania ha una sorta di “signoraggio” ereditario sui paesi dell’Est europeo.
“Voi europei non dimenticate mai nulla” prende in giro, bonariamente, un anziano civil servant americano, riconoscendo la ostinata continuità della nostra storia.
Il campanello d’allarme che avverte di un nuovo clima in Europa suona proprio nella capitale di uno stato simbolo, un luogo che è stato un passaggio cruciale del conflitto europeo del secolo scorso: l’Austria. Il 17 maggio di quest’anno, a poche ore dal nuovo voto europeo, per il quale le urne si aprono dal 23 al 26, viene reso pubblico un video che riguarda il politico più discusso e più in ascesa dell’Austria, Heinz-Christian Strache, leader del partito di estrema destra, il Freedom Party. Nel video, girato nel 2017 in una villa di Ibiza, Strache e un suo collega, parlano per sei ore di donazioni illegittime al partito, con una donna che si presenta come la nipote di un oligarca russo, che vuole influenzare la politica austriaca con il suo denaro. La donna vuole comprare il 50 per cento di un grande giornale austriaco, per aiutare il Freedom Party. Strache, che si impegna a darle in cambio ricchi contratti di Stato, tira in mezzo anche il sovranista Viktor Orban, dicendo di voler “costruire un panorama mediatico” come quello in Ungheria – in ammirazione della politica di chiusura dei media in quel paese.
L’incontro era una trappola. Il video viene passato ai media tedeschi e in poche ore porta alle dimissioni di Strache, cancella l’Austria dalle elezioni europee, e distrugge il Governo austriaco, che si avvia a nuove elezioni questo settembre.
Per molti versi la vicenda sembra una storia molto locale, di un paese da sempre attraversato da una forte corrente di estremismo di destra. Ma la lezione nel cuore dell’Europa centrale viene ben capita. Il Freedom Party di Strache è stato fondato da un neo nazista e si dichiara amico della Russia. Il giovane cancelliere Sebastian Kurz forma una coalizione con questo partito, nel 2017, ricevendo molte critiche, incluso dalla Germania, nell’idea che i conservatori moderati possano a loro volta servire a moderare, con l’inclusione nel governo, i neonazi.
Strategia che fallisce miseramente. Ma il potenziale impatto dello scandalo accende l’attenzione internazionale su quel che può accadere nel resto dell’Europa. Alina Polyakova, esperta di questioni di estrema destra per il Brookings Institute di Washington, scrive sul New York Times che la vicenda prova che gli estremisti non possono essere moderati, anche quando entrano al Governo. “Altri politici europei che si trovano a confrontare con una destra estrema dovrebbero capirlo. A fronte di tutta la retorica di sovranità nazionale regolarmente celebrata da Marine Le Pen, Matteo Salvini e altri leader populisti, la caduta di Strache prova che tutte queste idee sono solo copertura di opportunismo e ipocrisia”.
Che i populisti siano un pericolo da fermare è un’idea che assume una forte valenza proprio intorno a quello scandalo, nelle ore immediatamente a ridosso dell’apertura delle urne per le europee.
Chi c’è dietro quella trappola? Molti parlano degli stessi russi, ma molti vi vedono un ruolo tedesco – magari non di organizzazione, ma certamente di facilitazione. Sono i giornali tedeschi che riverberano lo scandalo, il tema del pericolo populista; ma è soprattutto Vienna a far scattare l’associazione con la Germania. Dire Austria ha avuto a lungo il significato, ed è vero ancora oggi, di dire Germania. Dalla tragica avanguardia antisemita della “notte dei cristalli” nel 1938, alla guerra pericolosa e sottile degli anni della Guerra Fredda, appunto. L’influenza della Germania è ancora oggi molto estesa, nei paesi dell’Est – Visegrad è il gruppo di nazioni che ricalcano ancora la vecchia zona di influenza dove Germania e Russia hanno fatto patti o guerra. I rapporti fra Russia e Germania sono nella storia europea fra i più stretti: persino nella divisione creata dal Muro, quando la Germania era il cuore e il confine di un conflitto per la sopravvivenza di due modi di vedere l’Europa, questi rapporti sono rimasti intrecciatissimi. Proprio per questo, nella Guerra Fredda gli inglesi e gli americani in prima fila contro la Russia si sono sempre basati sulla struttura operativa, inteso come uomini, conoscenze, contatti, costituita dalla rete tedesca – spesso delle due parti della Germania.
Nella stessa leadership attuale dei due paesi c’è l’imprint di questa storia. La attuale cancelliera, Angela Merkel, è cresciuta nella Ddr, ed è da sempre “sospettata” (ma non si sono mai trovate le prove) di aver lavorato come informatrice della Stasi, il servizio di intelligence della Germania dell’Est; l’attuale presidente Putin ha fatto un’importante parte di carriera come ufficiale dei Servizi segreti sovietici con il grado di tenente colonnello del Kgb, dal 1975 al 1991, in residenza (dal 1985 al 1990) anche lui nella Ddr, a Dresda, utilizzando un’identità di interprete come copertura. Come poi da lui raccontato, la notte della caduta del Muro passò il tempo a bruciare migliaia di carte di documenti ufficiali del Kgb. Putin parla tedesco, e fra loro Merkel e Putin usano questa lingua per comunicare, in un rapporto stretto in termini di uso reciproco, ma ugualmente conflittuale, che simboleggia nelle carriere parallele di due forti leader il senso di quanto profondo e quanto radicato (nel senso di profondità delle radici) sia ancora oggi lo snodo Europa-Russia.
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Il 8 luglio, meno di due mesi dopo la tempesta austriaca, arriva un’altra pubblicazione, quella degli audio di un gruppo di leghisti che, suppostamente a nome della Lega di Matteo Salvini, tratta per un finanziamento illegale con dei russi a tutt’oggi non identificati. La trattativa non va in porto nemmeno questa volta, come non era andata in porto quella di Ibiza. Le somiglianze con il caso austriaco sono sorprendenti: i due avvenimenti sono la fotocopia l’uno dell’altro. E il parallelismo non va perso.
La Lega si difende dallo scandalo, sottolineando l’aspetto geopolitico della trappola, cita i Servizi, parla dei francesi, della Massoneria. Gli avversari della Lega evocano gli stessi russi che avrebbero tradito il proprio alleato – per fare un favore all’America, per scaricare un alleato che ha tradito le aspettative. Ma la storia che siano gli stessi russi è in parte troppo contraddittoria. Seguendo invece la pista della “operatività” e del “cui prodest”, si arriva molto più vicini a una pista più politicamente fondata.
Naturalmente toccherà ai giornalisti dell’Espresso raccontare a fondo un giorno questa storia da loro scoperta con tenacia e audacia – e ce ne vuole di queste due virtù per aver fatto l’impeccabile lavoro che hanno fatto. Ma se dei giornalisti sapevano, a maggior ragione è probabile che anche l’intelligence straniera che opera in Russia sapesse e tenesse sotto controllo i protagonisti italiani, ben noti nelle vicende russe per posizioni e attività. E in Russia operano tutti i Servizi occidentali, ma di questi il tedesco rimane comunque quello con maggiore agibilità nella ex oltre cortina.
Che si tratti di un trojan, di microspie, di doppi fili e doppi agenti, lo sapremo mai? Si può però dire con certezza che l’operazione è il secondo atto in due mesi di una trappola ostile costruita contro i sovranisti d’Europa.
La trappola stavolta viene resa nota per vie americane, Buzzfeed e New York Times. E non è audace sostenere che è questo il passaggio che serve: laddove la questione austriaca era molto europea, il rapporto con Mosca di Matteo Salvini, vincitore delle elezioni europee e astro nascente del nazionalismo europeo, ci porta dritti dritti agli americani, oggi alleati del leader leghista tanto quanto Putin. E la domanda che si pone è: Washington sapeva o meno? Gli Usa sono stati protagonisti o solo spettatori? E sono stati contenti o meno? Questa è la seconda parte della storia, che è appena iniziata.
“La struttura stessa della intelligence è oggi profondamente interdipendente. Per ragioni di globalizzazione e di tecnologie, tutti sanno tutto di tutti”, commenta un esperto di queste materie. “La Germania non potrebbe politicamente agire da sola, perché nel corso di tutta la Guerra Fredda in quanto avamposto dello scontro con i sovietici, ha sempre lavorato insieme a inglesi, francesi e americani”. Tutto quello che è avvenuto, è avvenuto con la conoscenza e l’approvazione in chiaro o meno di un po’ tutti.
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Gli Americani, dunque. Non sono gli americani dell’amministrazione Trump amici di Salvini e ammiratori di Putin?
Questa definizione, che dal nostro lato dell’Atlantico, è una opinione indiscussa, a Washington non è invece tale. John Hamre, uno dei maggiori esperti in Usa di Difesa, presidente e Ceo dal 2000 del Csis (Center for Strategic and International Studies), alla domanda su questo intreccio apparente di contraddizioni sul caso Metropol/Lega, è abbastanza chiaro: “Trump dice e fa cose che tuttavia a livello di politica estera non hanno la stessa rappresentatività”. Parere su cui si ascoltano opinioni simili all’Atlantic Council, dove il programma sulle relazioni fra Europa e Usa è affidato al francese Benjamin Haddad, che nel 2017 a Washington rappresentava “En Marche” di Emmanuel Macron. Ma sul lato opposto dello spettro politico americano, si ascoltano valutazioni non distanti: a pranzo con Rover Norquist, si può ascoltare il carismatico fondatore e leader del think tank considerato più influente oggi a Washington, American for tax reform, l’uomo che ha inventato la flat tax, un reaganiano della prima ora, amico e compagno di avventure in America Centrale del colonnello Oliver North (proprio lui, il protagonista della campagna a favore dei Contras). Norquist ha incontrato Salvini nel recente viaggio del leader Italiano, e del nostro vicepremier ha una opinione ottima. Ma sul rapporto Russia/Usa non ha nessuna incertezza, nemmeno lui: l’America non sta con Putin e non intende lasciare via libera alla Russia in Europa.
La distanza fra Amministrazione, cioè fra gli uomini che formano la politica, e il presidente, sembra uno dei punti assodati di questo panorama washingtoniano. In particolare si indicano il percorso e le opinioni del segretario di Stato Mike Pompeo, oggi segretario di Stato, ufficiale dell’esercito americano e da gennaio 2017 ad aprile 2018 direttore della Cia. Nel suo discorso davanti al Congresso durante le confirmation hearings accusò Barack Obama di aver invitato la Russia in Siria, e così descrisse la politica di Mosca: “Si è di nuovo imposta con metodi aggressivi, invadendo l’Ucraina, minacciando l’Europa, e non facendo nulla per aiutare la distruzione e sconfitta dell’Isis”.
D’altra parte, sottolinea Hamre, per andare alla sostanza di questa relazione basta guardare la Nato: a dispetto di tutte le polemiche e le proteste di Trump con gli europei, “la Nato non è stata smantellata. Semmai rafforzata”. In sintesi, dice il presidente del Csis: “Pompeo è un uomo parte della vecchia scuola di politica estera americana. Un conservatore che su Putin e sulla Russia ha idee molto chiare. Il fatto che ci siano tra superpotenze necessità di buone relazioni, come ha sempre sostenuto, non vuol dire far rientrare Putin in Europa dalla porta di servizio”.
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“La porta di servizio”, la definizione è una ottima sintesi per descrivere bene il punto intorno a cui sembra ora svilupparsi la situazione in Europa e sull’asse Atlantico: sul rapporto con la Russia è in corso nel nostro continente un marcato cambio di percezione e, forse, di decisioni.
Il rapporto fra Putin e i nazionalisti europei – a lungo probabilmente sottovalutato o, comunque mal analizzato dalle leadership europee, nell’ultimo anno, in mezzo alle spoglie dell’indebolimento della Ue (tra Brexit e la crisi dei modelli Germania e Francia) – ha finito con il diventare una sfida frontale alla sovranità europea, i nazionalisti visti come la quinta colonna, la “porta di servizio” appunto, attraverso cui la Russia rientra in Europa. Vincendo alla fine, in una specie di mano di ritorno, quella Guerra Fredda che invece per tanti ha perso.
Le vicende e le opinioni che fin qui si raccontano sembrano puntare ora a una reazione. Reazione di intelligence, ma anche politica. “L’Europa ha combattuto per difendersi, negli ultimi anni, interpretando il ruolo di guardiana dei parametri di Maastricht” dice Hamre. “Nel caso l’intelligence europea avesse deciso di avere un ruolo attivo nel contenimento dei sovranisti, saremmo di fronte a un cambio di approccio”. In attacco invece che in difesa.
Se poi questo approccio fosse guidato dalla Germania ci troveremmo di fronte a un seconda novità: l’attivazione sul campo di una potenza che dall’epoca della fine della seconda Guerra, in rispetto del suo tragico retaggio, si è sempre tenuta fuori dai conflitti aperti, in puro supporto del campo anglo-americano .
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Immaginiamo cosa e dove ci potrebbero portare questi cambiamenti.
Intanto, la scena politica sembra ampiamente appoggiare questa ipotesi di una Germania che allarga il proprio campo di azione. La partita giocata da Angela Merkel nella formazione del governo della Unione europea è stata innovativa, e forse non va considerato un caso il peso che la Difesa ha avuto in questo disegno: Ursula von der Leyen, oggi presidente della Commissione Ue, è stata a lungo ministro della Difesa, e il Ministero della Difesa è la scelta della Germania per la delfina della Merkel, Annegret Kramp-Karrenbauer. Che il primo atto della presidente von der Leyen sia stato quello di non incontrare Salvini e di allontanare i voti leghisti è un altro segno di una lotta che si sposta dal controllo delle spese delle nazioni alla sfida diretta. Così come inequivocabili sono state le parole della cancelliera, nei primi giorni del nuovo governo europeo, sul tema oggi più sensibile – il nazismo e il pericolo di una destra che ritorna in Europa. Nel discorso di commemorazione del fallito attentato ad Adolf Hitler, Merkel ha collegato l’evento al presente della Germania: “Questo giorno ci ricorda non solo chi agì nel 20 luglio del 1944, ma tutti coloro che si sono opposti al regime nazista”. “Oggi siamo ugualmente obbligati a opporci a tutte le tendenze che cercano di distruggere la democrazia. Compreso l’estremismo di destra”.
È questo l’inizio di un nuovo ruolo della Germania in Europa, una leadership che si schiera contro i sovranisti, che non si nasconde più (anche perché non c’è più spazio per farlo) dietro la funzione tecnica del guardiano di Maastricht? Un ruolo più schierato ideologicamente, compensato magari da una versione più soffice nelle trattative con i vari paesi? In questo senso, l’asse coltivato in Italia con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sulla trattativa per la procedura di infrazione, andata a buon fine, fa pensare non solo ad una alleanza anti-Salvini, ma anche a un’anticipazione di politiche di alleanze che spaccano i fronti dentro ogni territorio nazionale.
Qualunque sarà il futuro, questa Germania non più molto “riluttante” è un segnale che l’Europa non ha intenzione di smobilitare, e che con i sovranisti si prepara a uno scontro. “Europe is kicking back”, dice John Hamre.
L’Europa reagisce. E il calcio, viene da aggiungere, potrebbe far partire una seconda tranche di guerra fredda. Anzi freddissima, se dobbiamo giudicare questi primi colpi iniziali.
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