Dal “pirla” fino a Belsito e Savoini: tutti i faccendieri della Lega
Nell’anno 2000, mentre l’Italia si prepara a dare l’addio alla lira, nasce così Credieuronord, una cooperativa che arruola tra i soci centinaia di militanti convinti di contribuire a una buona causa, quella del credito su misura del piccolo risparmiatore. Finì male, malissimo. Nel 2003 la piccola banca era già arrivata al capolinea, travolta da affari sballati e prestiti mai restituiti. Gli oltre tremila azionisti hanno recuperato solo in parte il loro investimento.
A far da paracadute per l’istituto di credito che rischia la bancarotta spunta invece Gianpiero Fiorani, che porta quel che resta di Credieuronord sotto l’ombrello dell’allora rampante Popolare di Lodi. Anche la parabola di Fiorani si interrompe ben presto, nel 2005, con le inchieste penali che alzano il velo sui legami pericolosi tra il banchiere preferito dai padani e la banda dei cosiddetti furbetti del quartierino. All’epoca i primi tifosi del patron della Popolare di Lodi erano proprio i capi della Lega, con in testa Roberto Maroni.
Fiorani da parte sua cercò anche di sdebitarsi. Gli atti del processo raccontano che nell’estate del 2004 il banchiere portò alla Camera una mazzetta in contanti avvolta in carta di giornale per consegnarla a Giancarlo Giorgetti. Il quale rifiutò i soldi, ma non denunciò il maldestro tentativo di corruzione.
Una volta chiusa la sfortunata avventura bancaria di Credieuronord, i capi della Lega hanno continuato a gestire come peggio non si può i gioielli di famiglia, che poi sarebbero i finanziamenti pubblici elargiti al partito a norma di legge. Sono soldi dei contribuenti, insomma, che però finiscono per essere investiti nei modi più diversi, anche strampalati, come i milioni dirottati verso titoli della Tanzania via Cipro. Poi c’è il denaro per le spese personali di Bossi e figli, “The family” come recita il frontespizio di una cartellina recuperata dagli investigatori della Guardia di Finanza.
Correva l’anno 2012 e il tesoro della Lega era affidato alle cure del senatore Francesco Belsito . Le indagini hanno ricostruito la gestione allegra della cassa del partito. Saltano fuori la laurea in Albania di Renzo Bossi, meglio noto come “il Trota”, diploma pagato con i soldi del partito. Resta memorabile lo show del figlio del senatur, quando in aula, durante il processo a Milano nel 2016, affermò di non sapere di essersi laureato. Intanto nell’aprile del 2012 lo scandalo aveva già portato alle dimissioni del vecchio leader e fondatore del movimento padano. La nuova Lega di Bobo Maroni e poi di Salvini si è però ben guardata dal far causa al segretario uscente per le malversazioni dei soldi del partito. Risultato: Bossi se l’è cavata con un non luogo a procedere per le accuse di appropriazione indebita, mentre a Genova il senatur ha rimediato una condanna a un anno e dieci mesi in appello per la truffa ai danni dello Stato sui finanziamenti pubblici. «Mi hanno lasciato con il cerino in mano», fu l’amaro commento di Belsito. Per lui una doppia sentenza: un anno e otto mesi in appello a Milano, tre anni e nove mesi nel processo genovese.
Nasce da quest’ultimo procedimento l’indagine sui famosi 49 milioni, con i magistrati che procedono per riciclaggio, per capire quali strade abbiano preso i soldi misteriosamente spariti dalle casse del partito. Nel frattempo però alla Lega è già stato offerto un provvidenziale salvagente. Secondo l’accordo raggiunto nel settembre dell’anno scorso con la procura genovese, il denaro potrà essere restituito nell’ arco di 75 anni in comode rate da 600 mila euro a interessi zero. A conti fatti è come se il debito si fosse ridotto da 49 a 18 milioni. Salvini intanto, nel tentativo di dare un taglio netto con un passato a dir poco imbarazzante, ha creato dal nulla un nuovo partito, la Lega per Salvini premier. Ombre, dubbi e sospetti però non svaniscono. Anzi. La scena si è spostata a Mosca, all’hotel Metropol dove, come rivelato da L’Espresso, nell’ottobre dell’anno scorso si è svolta una trattativa tra una delegazione di italiani guidata dal leghista Gianluca Savoini e un gruppo di affaristi russi. Con Savoini, da anni stretto collaboratore del Capitano, c’erano altri italiani che dovevano gestire la compravendita di gasolio destinata, almeno nelle parole dei protagonisti del negoziato, a finanziare la campagna elettorale della Lega. Salvini smentisce, ma non spiega e neppure va a riferire in Parlamento sullo scandalo. Non sarà così facile, però, liberarsi delle ombre russe che si allungano sul partito. La storia continua. Da Patelli, a Belsito fino a Savoini, una lunga scia di affari sballati. Nel nome della Lega.
L’ESPRESSO
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