Un Paese, due facce. Perché ora rischiamo di essere retrocessi
di Dario Di Vico
Ieri su Twitter ha conosciuto un discreto successo il commento del profilo satirico Vujadin Boskov che ha inquadrato il doppio dato Istat alla maniera dell’indimenticato allenatore blucerchiato: «Ma se disoccupazione scende e Pil è fermo, nuovi assunti sta tutti in tribuna». È solo una battuta e non va certo presa alla lettera ma le rilevazioni statistiche di ieri, più che alla solita intemerata politica, si prestano a tentare di capire dove sta andando l’economia italiana, caratterizzata da un Pil in piena stagnazione e un’occupazione a livelli alti. Che cosa sta accadendo? Per rispondere è bene partire individuando l’epicentro della stagnazione e purtroppo ciò rimanda alla manifattura, asset di eccellenza del nostro sistema-Paese. La fascia alta del sistema industriale viene da anni di inaspettati e clamorosi successi nell’export, nessuno all’inizio della Grande Crisi avrebbe mai scommesso sul fatto che ne saremmo usciti ridimensionati dal punto di vista quantitativo ma molto più internazionalizzati di prima. Quel traino non c’è più per via delle turbolenze commerciali legate alle politiche di Trump ma anche perché il nostro punto di riferimento, il sistema-Germania, si è inceppato. E non a caso a risentirne più di altri territori è la Lombardia manifatturiera, la regione di gran lunga più legata all’economia tedesca e largamente presente nell’importante catena del valore dell’automotive.
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