Ministro in mutande

Salvini è, evidentemente, nervoso, incattivito, privo di quel tratto fintamente bonario da “barbaro col sorriso”. Guardatelo bene, non sorride più e non fa più sorridere. Il ragazzo della porta accanto ha acquisito la cupa gravitas di un leader bielorusso, con la barba più grigia che rivela la perdita della spensieratezza. Non si scusa per il figlio, ma inveisce contro il videomaker che aveva ripreso Federico, bello di papà, farsi scorrazzare in mare su uno scooter ad acqua della Polizia di Stato, come in un parco giochi acquatico: “Vada a riprendere i bambini visto che le piace tanto”. Come se il problema fosse la ripresa e non la violazione, e che quel ragazzo non fosse il figlio del responsabile della Sicurezza nazionale. Perde le staffe alla parola Savoini, che evoca l’angoscia dell’ignoto. Sempre più di incapace di trattenersi, affida l’esibizione di forza al turpiloquio rivolto al ministro dell’Interno tedesco che ha “rotto le palle” e alla “zingaraccia” che avrebbe alluso a un proiettile contro di lui su cui “arriverà la ruspa”. Solita benzina che infiamma e sdogana gli animi razzisti del paese, perché se il titolare dell’ordine pubblico parla così, in parecchi si sentono legittimati a togliere i freni all’insofferenza verso “gli zingari”.

La novità non è l’essere sopra le righe, il battutismo, l’esprit populista che rompe il politicamente corretto e la civiltà istituzionale, ma il parossismo dei toni proprio di chi esaspera perché ha perso, sin dal giorno dell’audio russo, la sicurezza, caratteristica fondamentale per chi si pone come l’uomo d’ordine fino alla brutalità. La sicurezza di essere, come fino al dopo-europee, l’unico padrone del suo destino e delle sorti politiche del paese, senza di il timore di perdere, assieme al Viminale, uno scudo sempre utile in una situazione delicata, in cui si addensano i fantasmi del complotto, le ombre dell’inchiesta della procura di Milano, gli sviluppi su Siri. Nel consueto spartito di una crisi minacciata ma mai aperta, nei consueti penultimatum di giornata, in questo abbaiare ma non mordere, c’è la consapevolezza che l’alternativa elettorale non è più, fino in fondo, nelle sue disponibilità. E non solo per tutta una serie di ragioni logiche e visibili: le famose “finestre elettorali” chiuse, l’imminente sessione di bilancio, la calendarizzazione, alla ripresa, della riforma dei parlamentari che gli conviene e non poco perché, a legge elettorale vigente, ne aumenta a dismisura l’influenza. E, dunque, meglio approvarla e aspettare che entri in vigore dopo sei mesi senza far saltare il tavolo.

In fondo, ci sarebbero state tante altre buone ragioni per fare l’opposto, sfruttando l’enorme consenso raccolto alle Europee. Nella rinuncia a cogliere l’attimo c’è un qualcosa che con la logica non si afferra ma che forse il nervosismo odierno spiega: l’uomo forte dà l’idea di non controllare più la situazione, di percepirsi in una terra ignota che suggerisce di non lasciare il Viminale. Insomma, avverte la pressione e si sente meno libero di scegliere e di rischiare. È una novità non di poco conto per un leader che in così poco tempo ha conquistato così tanto potere, anche con una relativa facilità e con l’illusione che tutto è lecito. È la scoperta di un limite, di una “nudità” da accettare e non da esibire.

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