Matteo Salvini è finito in un cul de sac
Bruno Manfellotto
Se non fosse per i sondaggi mirabolanti, che gli pronosticano trionfi crescenti a dispetto pure dei rubli russi, Matteo Salvini dovrebbe coraggiosamente prendere atto d’essersi infilato in un cul de sac. Innanzitutto sul piano politico, determinante nella sua corsa alla conquista totale del potere; ma anche su quello economico che sta tanto a cuore ai suoi elettori del nord produttivo.
La politica. Intervendo nel surreale dibattito sul Russiagate altezzosamente disertato dal ministro dell’Interno sotto accusa, in un’aula abbandonata dai senatori del M5S in piena confusione mentale, l’avvocato del popolo Giuseppe Conte ha chiarito a Salvini – Costituzione e prassi alla mano, e probabilmente dopo provvidenziali chiacchierate con il Capo dello Stato – che in caso di rottura dell’alleanza lui, Conte, chiederebbe alle Camere un esplicito voto di sfiducia. Si chiama “parlamentarizzazione della crisi”, che fuori dal gergo istituzionale significa che, se vuole far dimettere il premier, Salvini deve votargli contro; dal che consegue ancora che il governo che verrà (verrebbe) sarebbe un altro, non questo bocciato, è perfino ovvio. Governo che magari avrebbe il solo scopo, come ipotizzato al Quirinale, di portare il Paese alle urne. Sempre che Mattarella reputasse opportuno sciogliere le Camere.
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