Nicola Zingaretti resiste all’accrocco
Al netto della faccia di bronzo e dello scarso senso del pudore, siamo di fronte a una manovra politica. Su cui, nei prossimi giorni, è inevitabile che salirà il pressing e la classica retorica dell’emergenza: l’Europa, lo spread, la manovra. Perché solo in Italia ogni volta è un dramma ciò che in tutto in mondo è fisiologico quando cadono i governi: il voto. A costo di tenere attaccato all’ossigeno un Parlamento che non è più specchio del paese e alimentare un populismo sempre peggiore. Il Palazzo che stoppa Salvini non è un palazzo responsabile, ma la grande chiamata delle ruspe su piazza Montecitorio. Sono questi i ragionamenti che in parecchi, in queste ore, stanno facendo al segretario del Pd, trovando condivisione sulla necessità di seguire la via maestra del voto: “La deriva antidemocratica di Salvini – ha ripetuto il segretario del Pd in queste ore – non la risolve facendo la manovra di bilancio e poi consegnando a Salvini il paese a febbraio. A quel punto non lo fermi più”.
Ecco la posta in gioco: Salvini con le mani libere per mesi, che aizza il paese contro il governo degli abusivi e dei pavidi timorosi “della volontà degli italiani”, e il Pd che si carica sulle spalle il peso dei disastri di un governo che ha fallito. E lo fa assieme ad un partito che in Parlamento, vale il doppio, rinunciando a intercettarne la sua fuga degli elettori disillusi. È tecnicamente un suicidio. Per il Pd. E per il neosegretario, la cui stagione rischia di essere azzoppata sul nascere in un gioco di cui non è il kingmaker ma che subisce.
Questa discussione, riflettono al Nazareno, è dannosa perché sposta il problema. La verità è che c’è un governo che ha fallito e, in tutto il mondo, quando i governi falliscono le opposizioni vogliono votare per sostituirli. Invece, per come si sta mettendo, si parla poco di quel che è successo quest’anno e sembra che la scelta delle elezioni sia in capo al nuovo segretario, come se fosse un marziano, in un partito dove la parola “responsabilità verso il paese” cela in verità l’anelito alla conservazione di una nomenklatura. Ed è dannosa perché rischia di far apparire il Pd come una squadra di calcio che, per paura di perdere una partita, si mette a parlare della praticabilità del campo, del curriculum dell’arbitro e della temperatura esterna, quando invece c’è solo un modo per “fermare Salvini”: batterlo. In un’intervista al Messaggero, l’infallibile Ghisleri ha ricordato che “il consenso è mutevole” e le rilevazioni attestano che c’è preoccupazione per i tanti dossier rimasti inevasi. Sotto gli ombrelloni, gli italiani stanno metabolizzando la notizia che il governo del “cambiamento” è saltato, ed è saltato per l’inconcludenza e i litigi dei due soci che, per mesi, si sono avvitati in un duello che non avere nulla a che fare con “gli interessi della gente”: “Gli italiani – spiega la Ghisleri – dicono: avevano promesso di realizzare un contratto, non lo hanno fatto e ora sono irritati e rivogliono la parola”. È la democrazia, bellezza. La manovra è in atto, portata avanti oggi dagli sconfitti dentro il Pd e dentro i Cinque stelle, e da domani da un establishment che da almeno un decennio non ne azzecca una e ha creato il populismo. Se dovesse nascere, sarebbe un governo all’opposizione del paese. Al momento, dicono al Nazareno, Zingaretti ne è consapevole: “Altre maggioranze – ha ripetuto ai suoi – non ce ne sono”. Sa che è una questione di sopravvivenza. Del Pd e anche sua.
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