Come due Scilipoti qualunque

Ma Grillo? Che dire di Grillo? Sentirlo assumere il ruolo di responsabile nei confronti di un sistema politico disprezzato, di formule considerate morte, di alleanze con uomini e partiti, il Pd in particolare, considerati fino a 24 ore fa il vertice di ogni corruzione, è più che una sorpresa, è una esperienza sensoriale. Fra le tante stupide domande che mi vengono in mente la più grande è sicuramente: ma adesso, Grillo, nel talk show del nuovo governo di scopo, riammetterete anche il buon Bersani che venne invitato a uscirne nel primissimo contatto fra Pd e i tuoi, durante la prima consultazione in streaming?

Sono purtroppo stupide curiosità del genere, quelle che vengono in questo momento. Perché è impossibile prendere il tutto sul serio. O dovremmo davvero credere che è l’orgoglio della politica che parla in queste proposte e non l’evidente opportunismo della politica? Dobbiamo davvero pensare che Grillo non sta difendendo la voglia di restare al governo, con un 33 per cento di eletti che non avrà mai più? Vogliamo davvero credere che sia un sacrificio per Matteo Renzi abbracciare i propri nemici per eccellenza, quegli stessi 5Stelle su cui aveva tracciato finora la linea discriminante per una sua scissione?

Ma, insomma, su Grillo e Renzi queste obiezioni sono tutte fin troppo facili. Parlarne val la pena, in fondo, per una sola, seria, ragione: la conversione in pecorelle istituzionali di questi due Molok dello scontro identitario, fornisce la prova di quanto forte, cocciuto e radicato, di quanto permanente organizzato, sia, in Italia, il partito del non-voto.

Dell’impatto avuto da questo partito sulla recente storia nazionale (qualche esperto ne ha rintracciato la vita in tutto il declinare della storia della nostra Repubblica) si è parlato tanto, ma senza mai andare oltre il cumulo di domande che ha lasciato sul tavolo. Era necessario un governo Monti, o il paese sarebbe stato più stabile se la sconfitta di Berlusconi fosse uscita dalle urne? La sinistra avrebbe avuto più forza se Bersani non fosse stato eliminato con una figura di mediazione come Letta? E il rinnovamento delle istituzioni sarebbe avvenuto nel segno della politica e delle forze democratiche se Renzi fosse passato per le urne? Potremmo persino chiederci, tanto per arrivare al presente, che senso ha avuto nel “salvare l’Italia” fare un governo così incoerente come quello appena franato fra M5s e Lega?

Di tutte queste domande rimane solo una certezza: i grandi sforzi fatti dal partito del non voto, mirati a fermare la deriva populista, l’antieuropeismo, il giacobinismo antiistituzionale, non solo non hanno avuto successo. Al contrario hanno legittimato il sentimento antiistituzionale, alimentando la narrativa di istituzioni chiuse su se stesse e i propri interessi. Esattamente quello su cui punta ora Salvini per la sua scalata finale al cielo del governo dell’uomo solo al Comando. Ha bisogno di dire che tutti, assolutamente tutti, inclusi i suoi vecchi alleati, sono compromessi con il sistema e le poltrone. Una narrazione che ha avuto tempo di diventare una canzone sulle spiagge d’Italia.

Quando parliamo del partito del non voto, parliamo insomma di un modello. Partito perbenista, e per bene. Fatto da uomini molto bravi e rispettabili– come Prodi e Letta che proprio in queste ore si sono espressi a favore di non andare al voto – gente che ha esperienza di politica, relazioni internazionali, ed economia, e che concepisce la politica come un teorema della gestione, più che dello scontro. Il senso di questo partito è infatti incastonato nella discussione su clausole di salvaguardia, leggi di bilancio, agenzie di rating, spread.

Ma la ripetuta inefficacia di questo approccio nel corso degli ultimi drammatici anni, lo ha insterilito. La forma con cui si presenta oggi il partito del non voto è infatti quella di un fallito governo che, dopo averci regalato la peggiore svolta a destra del paese, propone oggi responsabilità nella forma di “aggiungi un posto a tavola”, una coalizione tra diversi e ancora e sempre nemici. Prova ne è che lo spirito con cui in questo accordo si parla di Iva, finanziaria, elezioni, è un approssimativo gergo para-economico: sposta questo conto di tre mesi, metti l’altra spesa sui consulenti, anticipa un po’ di pensionamenti, e supera questo anno. Come se invece di parlare di governo si trattasse di chiudere il bilancio di una piccola azienda, con voci da chiudere, invece che di atti politici, quali sono e quali dovrebbero essere trattati.

Una finanziaria è oggi il maggior atto politico che questo paese può fare all’interno di una scelta Pro-Europa: non mi dite che il Tesoro non ha già sul tavolo multiple ipotesi di lavoro, incluso quella di una accelerazione dovuta a una crisi di governo. In questo senso i tempi, lo abbiamo visto più volte, sono essi stessi funzionali all’atto politico. Un esempio per tutti: la finanziaria del primo anno del governo del cambiamento, decisione raccontata come epocale, per assistere alla cui nascita stampa, opinione pubblica ed esperti sono stati bloccati per mesi, fu presentata all’Europa con un valore di sforamento del 2.4 per cento. Fu rimandata a casa e divenne dello 2,04 per cento in soli 3 giorni 3.

A proposito di responsabilità, che finanziaria presenteremo all’Europa con un governo provvisorio che nelle vite precedenti dei suoi vari votanti ha sostenuto il jobs act, il reddito di cittadinanza, e la quota 100?

Se è vero, come è vero, che la sfida oggi è molto più seria di prima, che lo scontro ha raggiunto proporzioni più drammatiche, che in Italia passa, come già successo nei periodi peggiori della guerra fredda, il destino della collocazione europea, la linea rossa che divide la Russia dall’Europa, davvero un governicchio di sconfitti e mal appaiati è la scelta più responsabile, nonché piu’ attrezzata, più muscolare, per entrare a petto in fuori nella scelta fra Russia e Europa? Davvero aiutiamo gli italiani a scegliere più consapevolmente, e il paese viene messo in maggiore sicurezza perché qualche profugo, qualche pentito, e qualche furbone starà al governo per un po’ di mesi in più? Davvero l’Italia è più stabile se si tira avanti fino al prossimo presidente della Repubblica?

Facciamo decidere gli italiani. Come si fa in ogni paese, specie in epoche di crisi. Poniamo nelle piazze, sui tavoli, sui media le conseguenze delle scelte. I cittadini sono il cuore della democrazia. Smettiamo di trattarli come bambini che devono essere protetti dal male, o disprezzarli considerandoli incapaci di fare le giuste scelte.

E se il risultato finale sarà la vittoria delle forze sovraniste, delle forze anti-europa, cioè Salvini, che poi è il vero problema dietro tutte queste chiacchiere, vorrà dire che le forze sconfitte dovranno fare i conti con la loro sconfitta. Magari davvero cambiare, ricominciando dalle proprie macerie. Churchill, statista molto citato a parole, ma mai imitato dai politici italiani sapeva che le vittorie sono figlie di sconfitte ben gestite.

Detto tutto questo, credo che alla fine il partito del non voto è così forte che avrà ragione e non si andrà a votare.

E che tutti coloro che si sono schierati per andare invece al voto, saranno accusati di aver aiutato Salvini.

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