Ponte Morandi, un anno dopo: lʼarto fantasma che fa male ai genovesi

Non c’è più, non restano che le macerie e tra poco nemmeno quelle. Ma i genovesi cercano il Morandi con lo sguardo, come un tempo. E a volte, guardando bene, sembra proprio che sia ancora lì, sospeso tra terra e cielo, così imponente e così fragile, simbolo da sempre un po’ pericolante e spericolato di una grandezza, anche visiva, che fa parte del bagaglio della Superba. E certe volte fa male, proprio come un arto fantasma. Fa male ai genovesi come se ci fosse ancora, con le sue ferite mai curate che lo hanno portato a collassare su se stesso. Fa male anche ricordare il momento del crollo: proprio come un reduce che rammenta il modo in cui perse la gamba, così i genovesi raccontano con la voce spezzata dall’emozione cosa sia stato per loro quel disastro.

E’ passato un anno, ma il dolore persiste, pulsa ancora, come un arto fantasma. Non c’è più lo scheletro osceno del Ponte, un orrendo cadavere che deturpava ancora di più il Polcevera. E questo è un bene. Ora come allora, le responsabilità sono tutte da chiarire, ma i genovesi lo sapevano, a loro non sono mai interessati facili processi, concessioni date o tolte sull’onda dell’emotività. Ai genovesi interessava seppellire i morti, ridare una casa alle famiglie che l’avevano persa. E questo è stato fatto. Interessava poter tornare “a camminare”, riunire Ponente e Levante, anche con una protesi: i lavori per un nuovo viadotto sono cominciati e si prospettano, per una volta, non eterni.

Merito sicuramente non di chi l’anno scorso fece a gara per “portare la propria solidarietà” sul luogo della tragedia, scatti e volti compìti, promesse e parole al vento di un governo che, questo sì che è cambiato, praticamente non c’è più. Merito decisamente degli amministratori locali che, con un pragmatismo tutto ligure, hanno messo in campo la concretezza e lasciato i proclami ad altri. Ma merito soprattutto dei genovesi stessi che non sono cambiati per niente in questo anno. Non hanno cercato risposte ma le hanno fornite con il loro impegno quotidiano. Si sono rimboccati le maniche, hanno fatto fronte comune contro l’ennesima avversità che ha colpito la loro città fragile, preoccupandosi delle cose concrete con uno stoicismo e un senso di comunità che Genova ha sempre trovato nei momenti più difficili.

E pazienza se si sono un po’ lamentati. D’altronde il mugugno è nel loro DNA: fin dal 1300 i marinai genovesi erano disposti a essere pagati di meno quando si imbarcavano sulle navi pur di poter mormorare un po’, figurati quando hanno tutto il diritto di farlo. Mugugnano spesso per una cosa ben precisa: chiedevano una Gronda, un terzo valico, una strada alternativa che sciogliesse il nodo scorsoio al quale si è impiccato il Morandi. La risposta, dopo un anno, è sempre la stessa: vaga, inconcludente, balbettii senza senso su rapporti costi/benefici. Ma i genovesi ci sono abituati: stringeranno le spalle e poi via, belìn, è tempo di lavorare. Che il tempo è denaro, son palanche. Con quell’orgoglio sotterraneo , quel senso di appartenenza spesso clandestino ma indissolubile che unisce tutti i genovesi, vicini e lontani. E pazienza se quel vuoto tra i due lati della valle, ogni tanto fa un po’ male: al dolore (alluvioni, devastazioni e saccheggi, frane, mareggiate, fiumi in piena) sono abituati.​

TGCOM

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