Crisi al “Pastation”. I consigli di Verdini a tavola con lo stato maggiore leghista
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Voi capite che non è proprio un annuncio definitivo, un game over, soprattutto in un partito che ha fatto della gergalità machista la sua cifra e del “me ne frego” un motto con cui gasare pure le spiagge. E allora, spieghiamola quest’orgia politicista che disvela una crisi arrivata all’impazzimento, nobilitato nella formula che i leghisti consegnano a microfoni spenti: “Una pausa di riflessione di qui a quando martedì Conte arriverà in Aula”.
Spieghiamola, dicevamo. La prossima tappa è, appunto, martedì, le comunicazioni del premier a Palazzo Madama. Non è un voto di sfiducia, tecnicamente. E non è un dettaglio. Il premier parlerà, poi si voteranno le risoluzioni. Forse. Perché, una volta sentito il discorso di Conte, la Lega potrebbe anche non presentarle, rinviando tutto a quando tutto si voterà la sfiducia (chissà quando). E se la Lega non presenta una risoluzione contro il Governo, e questa risoluzione non viene votata, non è scontato che Conte si dimetta.
Insomma, per farla breve – e consentire che, per noia o mal di testa, non vi fermiate qui nella lettura – il senso di tutto questo è che manca ancora l’atto formale, la pistola fumante, l’atto definitivo per sancire la grande rottura. Il che dà ancora a tutti ampi margini di manovra. Parliamoci chiaro, qualcosa si è inceppato. A livello sistemico. E adesso anche dentro la Lega, perché un conto è mollare i Ministeri con la prospettiva di prenderne di più dopo le elezioni, un conto è lasciarli con la prospettiva di andare all’opposizione. È per questo che Giorgetti ha fatto trapelare la prima, vera critica al Capo: “Ha sbagliato i tempi, glielo dicevamo, ma non si è fidato”.
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È la prospettiva di un altro Governo, sia pur di un’accozzaglia che tiene dentro Renzi e Di Maio, Boschi e Paragone, garantismo e cappi, diavolo e acqua santa, quelli del “partito di Bibbiano” e quelli del “non in mio nome”, è la prospettiva di questo Frankenstein di Potere che ha fatto tremare le certezze della rivoluzione sovranista. Sentite qui che scena, martedì sera, al ristorante “PaStation” di Denis Verdini, il “suocero” in pectore, precipitatosi lunedì a Roma dalla Maremma, manco fosse un segretario di partito. L’uomo delle conte, ai tempi di Berlusconi, camicia bianca e bretellone, si è seduto al tavolo dove era attovagliato tutto lo stato maggiore della Lega – Molinari, Romeo, Molteni e Centinaio – con tanto i fogli alla mano: “Ve lo dico, questi il Governo lo fanno, Pd e Cinque stelle una cosa la mettono su”. A quel punto, con un certo pragmatismo, ha consigliato: “Sapete quante volte Bossi non ha mantenuto la parola data. Potete sempre tornare indietro e fare un nuovo contratto e un nuovo Governo con i Cinque Stelle”. È un professionista Verdini, sempre al centro del gioco, attratto sessualmente dal potere. E poco importa che, qualche giorno prima, aveva dispensato qualche consiglio a Luca Lotti, su una prospettiva opposta. E, per dargli una mano, aveva anche fatto qualche telefonata a qualche vecchio amico inquieto di Forza Italia: “Ne ho contati almeno 174 per il Governissimo”.
Sia come sia, il dato è che il primo effetto della cena è la riconversione sulla via di Damasco dell’indietro tutta proprio di Centinaio che, solo il giorno prima, in Aula aveva sbottato: “Ma come c…o abbiamo fatto a governare con questi (i Cinque stelle, ndr). Certo, se Di Maio telefonasse… Il bello è che, quelli attorno a Di Maio fanno sapere che non se ne parla perché, dopo quello che è successo, “deve essere lui a telefonare e a chiedere scusa perché ha tradito”. In attesa che qualche amico comune organizzi l’incontro per farli tornare assieme, il punto è che la soap è arrivata alla puntata dal titolo “Il dilemma”. “Se avesse la certezza del voto – spiega chi ha parlato con lui – Matteo romperebbe, ma sta capendo che succede nel Pd. Perché se invece nasce un altro Governo…Insomma tutto è possibile”.
Nell’attesa, ci mancherebbe altro, tutti imbullonati nei Ministeri, senza più l’eventualità che la delegazione leghista possa abbandonare il Governo.
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