La confusione, la realtà e gli accordi che sono possibili

Conosceremo il seguito di questa farsa il 20 agosto, quando al Senato si discuterà sulle «comunicazioni del Presidente del Consiglio dei ministri». Per ora sappiamo che tutti gli esiti sono possibili.

Se lasciamo da parte le schermaglie (altre ce ne saranno), i problemi di fondo sono tre: perché l’uscita di Salvini ha suscitato tante reazioni? Quali sono le ragioni per non sciogliere il Parlamento? A quali condizioni si potrebbe costituire un governo non effimero?

Salvini, dopo aver coltivato tante paure nel suo elettorato in continuo aumento, nel crescendo di una propaganda fatta in ogni luogo, ha finito per suscitare la paura che volesse tutto il potere per sé. Ha messo in discussione due alleanze storiche dell’Italia repubblicana, quella atlantica e quella europea, spostando l’asse dei suoi interessi e della politica verso la Russia di Vladimir Putin. Ha chiesto «pieni poteri». Si è mosso per conquistare da solo la maggioranza per guidare un governo monocolore, in un Paese che ha sempre ritenuto più rassicuranti i governi di coalizione e che ha sempre mostrato «insofferenza per il lungo potere» (sono parole di Mariano Rumor riferite agli otto anni di governo di De Gasperi). Il suo estremismo, anche verbale, ha fatto comprendere che il suo disegno era semi-plebiscitario e neo-bonapartista, quindi opposto al populismo coltivato dal M5S. Si è comportato da padrone anche nel suo partito (Giorgetti ha dichiarato al Corriere della sera il 15 agosto: «ha messo in fila i ministri, i capigruppo, i dirigenti di partito»; poi «ha sentito una ventina di imprenditori e figure di spicco» e ha deciso la svolta; Calderoli, il 17 agosto, sempre al Corriere della sera, ha dichiarato che «Salvini decide da solo»). Infine, questo farla da padrone pare legittimato solo dai sondaggi. Le due Leghe di cui Salvini è il leader hanno avuto alle europee 9 milioni di voti, su quasi 51 milioni di elettori e su quasi 28 milioni di votanti. Quindi, Salvini parla a nome di un quinto degli elettori. Inoltre, nessuno sa come voterebbe alle elezioni politiche quel 20 per cento dell’elettorato che non ha votato alle elezioni europee e che normalmente si reca alle urne per le elezioni nazionali. In conclusione, Salvini non ha messo in conto che le sue azioni e le sue dichiarazioni avrebbero suscitato il timore del «tyrannus ab exercitio», cioè di colui che, pur investito legittimamente del potere, lo esercita poi in modo tirannico.

Quel che è accaduto in un breve giro di giorni (ma si andava preparando da tempo) non è senza riflessi sulle istituzioni, a cominciare dalla principale richiesta della Lega, lo scioglimento del Parlamento. Vi si oppone una ragione costituzionale. La circostanza che si è votato poco più di un anno fa e che la Costituzione prevede rinnovi quinquennali, non ogni volta che cade un governo, né ogni volta che i sondaggi segnalano cambiamenti di umori dell’elettorato, se in Parlamento si possono trovare nuovi accordi. Tanto più che Lega e M5S si erano presentati all’elettorato in competizione e solo in Parlamento, dopo tre mesi, erano riusciti a trovare una intesa, a differenza di Forza Italia e della Lega di Bossi, che si presentavano uniti all’elettorato. Quindi, se si raggiunge un diverso accordo parlamentare, non viene tradito un «mandato» degli elettori. Seconda conclusione: non si può sciogliere il Parlamento ogni volta che i sondaggi indicano cambiamenti, se non si sperimentano le possibilità di nuovi accordi in Parlamento. Questa è la regola del parlamentarismo.

Il problema che viene dopo è: quali accordi sono ora possibili? Le strade sono tre. La prima: che si ricostituisca un’intesa tra le due forze di governo, sulla base di un contratto meno labile di quello del 2018. Se questo accade, Salvini avrà ottenuto il contrario di quel che voleva, perché dovrà stare al governo ridimensionato, con minori poteri e gli stessi rischi russi di prima. Dovrà capire che, se si fa parte di un condominio, non si può alzare la voce e litigare. Dovrà riconoscere la primazia del M5S, che deriva dai rapporti di forza delle elezioni del 2018. Dovrà attendere altri quattro anni, nei quali non può continuare la sua campagna elettorale. Sarà difficile che possa continuare a criminalizzare l’immigrazione e a coltivare paure.

La seconda possibilità è che si costituisca un governo del M5S con l’appoggio esterno del PD. Questo comporterebbe una revisione in profondità della retorica anti-immigrazione e una attenuazione delle posizioni tradizionali del M5S sulle opere pubbliche, nonché un accordo sulla scelta del commissario europeo e del prossimo Presidente della Repubblica.

La terza strada è quella che tra M5S e PD si crei un vero e proprio accordo. Alleanze multiple sono già state sperimentate. M5S e PD, insieme con Forza Italia, hanno recentemente votato a favore della presidente della Commissione europea (come, d’altra parte, Forza Italia ha votato con il M5S per i presidenti delle due Camere, nella decisione di salvare Salvini sul caso Diciotti, sulla prima legge sicurezza e su quella sulla legittima difesa). Una nuova alleanza di questo genere dovrebbe presentarsi con persone veramente nuove, e se possibile più giovani, che non abbiano frequentato finora lo spazio pubblico, dando davvero il segno che le due forze politiche sono capaci di fare un passo indietro, di non esser attaccate alle poltrone. Dovrebbe, per essere duratura, avere un programma di legislatura, ma anche la capacità di risolvere i problemi aperti (le crisi aziendali, l’aumento dell’Iva, la preparazione del bilancio 2020) e quelli già sul tappeto (la riduzione dei parlamentari, e le connesse modificazioni costituzionali ed elettorali). Dovrebbe, infine, aver la capacità di spiegare bene all’elettorato le sue mosse, dotandosi di strumenti mediatici e informatici almeno pari a quelli usati finora dalla Lega.

Quali che siano le conclusioni, è importante capire che l’accaduto non è privo di conseguenze sulla vita delle istituzioni. Non possiamo dire che tanto rumore sia stato per nulla.

CORRIERE.IT

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