Attirati nel gorgo
Ecco, lo schema è cambiato. Radicalmente. E la paura del voto è il vero cemento di una trattativa, nei fatti, avviata, con i primi contatti tra la Casaleggio e il Nazareno. Assai indicativo è che fonti degne di queste nome, sia del Pd che dei 5 stelle, fotografano con le stesse parole lo stato dell’arte: “A questo punto o si fa un Governo serio o si vota”. Con l’aggiunta che le “urne” non le vuole pressoché nessuno. Si consuma così una svolta profonda, radicale, senza neanche una riflessione pubblica degna di questo nome, un reciproco riconoscimento, un’analisi delle ragioni politiche che portano all’avvicinamento il diavolo e l’acqua Santa, quelli del “partito di Bibbiano” e i “cialtroni” che Renzi insultava e loro volta insultavano i suoi genitori dopo i clamorosi arresti per bancarotta fraudolenta.
Il semplice fatto che la trattativa sia avviata è una strepitosa vittoria del senatore di Rignano, mosso dalla necessità di guadagnare tempo e scongiurare il voto a ottobre, per organizzare meglio il suo partito. I Cinque stelle continuano a spifferare che “l’interlocutore” è Zingaretti, persona seria, affidabile, non l’Arcinemico di questi anni, ma il problema è che il segretario del Pd questa operazione l’ha subita, mentre l’altro che invece l’ha orchestrata avrà oggettivamente in mano il diritto di vita o di morte nel nuovo Governo. Non è un pensiero dietrologico, perché l’uomo che certo non difetta di autostima e narcisismo, l’ha candidamente ammesso nella sua intervista al Giornale: “Voteremo la fiducia, non chiederemo neanche uno strapuntino di potere, poi faremo il punto alla Leopolda il 18 ottobre”.
Anche in questo caso, Carlo Calenda, che non difetta di schiettezza e lucidità, ha prontamente avvisato i naviganti: “Cosa succede se si fa il Governo: Renzi prende tempo per far fuori Zingaretti o farsi il suo partito, resta fuori dal governo, poi lo farà cadere con la scusa che la sinistra si sta grillinizzando. Accetto scommesse”. Il che è possibile perché ha ancora in mano i gruppi parlamentari, che non sono proprio un dettaglio. E un eventuale gruppo del partito di Renzi, se va in porto la seduzione verso gli inquieti azzurri attirati dalle sirene della responsabilità e del sottogoverno, è destinato a diventare il secondo gruppo della coalizione di Governo (dopo i Cinque Stelle), con il Pd terzo.
È in questo quadro che si riducono i margini di manovra dell’iniziativa di Zingaretti, che si trova ribaltato lo scenario. Solo poche settimane fa il Pd era la possibile alternativa, i Cinque stelle in piena crisi esistenziale e Renzi spaventato dal ritorno alle urne. Oggi i Cinque stelle sono tornati centrali, il senatore di Rignano ha trascinato il partito sulla sua linea, commissariando Zingaretti, e ha in mano la golden share della maggioranza.
Ecco. Il punto, in questo contesto, è quanto Zingaretti vorrà e potrà osare alla direzione chiamata a pronunciarsi sull’alleanza con i Cinque stelle. È chiaro quali sarebbero le parole da pronunciare se volesse assumersi il rischio di una iniziativa per puntare alle urne. Poche, semplici condizioni, in nome della richiesta di una profonda discontinuità:
1) Abrogazione, al primo cdm del provvedimento simbolo di quest’anno, il Decreto Sicurezza;
2) Il ritorno al Rei, che sostituisca il reddito di cittadinanza;
3) No alla riduzione dei parlamentari se non accompagnata da una riforma costituzionale del Senato;
4) No alla riforma costituzionale che prevede il referendum propositivo;
5) Assenza dal nuovo Governo della delegazione complice di quel “barbaro” che tutti adesso vogliono fermare dopo avergli spalancato le porte di Roma.
Il tutto, in un clima in cui è necessario anche un sano processo catartico e un confronto limpido, alla luce del sole, tra forze che, fino a ieri non avevano in comune nulla. Non dettagli, ma divise sulla stessa idea della democrazia e delle istituzioni.
Questi punti il segretario li ha ben chiari da tempo. Sono però punti di una trattativa che può saltare, nell’ambito di un partito che non vuole farla saltare, perché non vuole votare. Invece alla Direzione si arriverà con un chiacchiericcio, fatto di abboccamenti, sondaggi riservati, telefonate informali. Trapela, ad esempio, che i Cinque Stelle “partono da Conte”, nel senso che, come base negoziale, vorrebbero confermare l’attuale inquilino di palazzo Chigi come premier della nuova maggioranza. Ma è un modo per trattare una sua onorevole uscita di scena, come commissario europeo. La vera condizione, non negoziabile, è la presenza di Luigi Di Maio al Governo che, per il Pd, è già difficilmente sostenibile. Si vedrà. Però il punto, indicativo, è che già si parla di nomi, prima ancora che sia definito, approfondito e discusso lo schema. Col vero capo dello nuova maggioranza, Matteo Renzi, che se ne sta fuori, a godersi il suo capolavoro, senza chiedere posti per sé e per i suoi, il che agevola la nascita del Governo e ne rende più semplice l’omicidio, quando vorrà.
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