Matteo Renzi e quel patto col diavolo: tutto pur di non morire

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Salvini e Renzi, i due Mattei. Anzi uno solo: allo specchio

Il populismo facile. Il trasformismo rampante. L’indifferenza alla parola data. La politica è nelle mani di due capi senza freni. Che si dicono alternativi ma sono paralleli

«Va bene tutto. Basta che si faccia un nuovo governo per evitare elezioni a ottobre», ha chiarito già in serata ai suoi. Un ribaltone nella maggioranza necessario a fermare l’avanzata della destra estrema di Salvini, certo. Ma Renzi, attraverso un governo istituzionale o politico, vuole comprarsi innanzitutto più tempo. Di cui ha bisogno come il pane.

Sa bene, infatti, che le urne anticipate permetterebbero finalmente a Zingaretti di falcidiare i suoi uomini dai gruppi parlamentari del partito, e di diventarne finalmente il vero padrone. E, soprattutto, è consapevole che l’accelerazione impressa dai leghisti posa far abortire il progetto di un nuovo partito personale, che si chiamerà “Azione Civile” (anche se Antonio Ingroia ha reclamato la primogenitura e la proprietà del nome). Un movimento a cui Renzi stava lavorando in segreto da mesi, e il cui lancio era già previsto per la Leopolda di fine ottobre.
Così, meno di ventiquattr’ore dopo la “blitzkrieg” di Salvini, Renzi, spalle al muro, si è compulsato con la war-room (oltre Boschi, si sente con Ettore Rosato, Luca Lotti, Andrea Marcucci e Francesco Bonifazi) decidendo di provare l’inosabile: proporre un’alleanza politica ai grillini. Anche loro, immagina, pur di non andare a votare subito saranno disposti a tutto. Anche a fare patti con il diavolo. Ha ragione: le prime interlocuzioni tra gli sherpa danno esiti positivi.

Il sentiero è strettissimo, lo sa. Ma durante la settimana di Ferragosto la paura si trasforma via via in ottimismo. Qualche renziano è addirittura euforico, e ipotizza che l’arrocco possa addirittura tramutarsi in un attacco feroce ai nemici del loro capo. A Salvini, «che forse ha fatto male i suoi calcoli». Ma pure contro Nicola Zingaretti, il segretario del Pd che il rignanese considera nient’altro che un abusivo, e che – non si andasse al voto – rimarrebbe ostaggio per altri mesi (o addirittura anni) dell’esercito parlamentare controllato dal suo predecessore.

«Proponendo un governo istituzionale, Renzi s’è giocato quasi tutta la posta che ha sul tavolo, con un all-in cinico ma razionale», dice chi lo conosce da una vita. Se viene sconfitto e si andasse davvero a elezioni a ottobre, il leader può perdere molto: restasse nel Pd avrebbe garantito in lista solo un pugno di deputati e senatori; fondasse in fretta e furia il suo partito scissionista, avrebbe pochi giorni per lavorare su simbolo, compilazione delle liste, coalizioni, e la pianificazione di una campagna elettorale vincente.
Ma se Renzi vincesse la battaglia, riuscendo a contribuire a far nascere davvero un esecutivo (di legislatura, politico, di scopo, del presidente, tecnico o istituzionale che fosse), la mossa lo teletrasporterebbe in un amen dal divano su cui si è imbullonato un anno fa con i popcorn al centro dei giochi della politica italiana. Prima del previsto.

LA LEGGE ANTI-SALVINI
Il finale di partita non è ancora scritto. Ma dopo lo show-down dell’ultima settimana, i disegni strategici del Giglio Magico appaiono più chiari. Partiamo dalla fine. Ossia dalla proposta indecente ai grillini per dar vita a un governo che eviti le urne autunnali, e elezioni politiche da “fine mondo” con cui Matteo Salvini e l’ultradestra potrebbero – sondaggi alla mano – issare la bandiera sovranista prima su Palazzo Chigi e poi sul Quirinale.
Renzi (e lo stesso Franceschini, che ha convinto il senatore toscano a “congelare” la scissione dal Pd, almeno fino a quando le conseguenze della crisi non saranno meno imperscrutabili) è convinto che il pericolo per l’Italia sia esiziale. «Se si va ad elezioni subito, con Salvini che fa un accordo con un pezzo di Forza Italia e la Meloni, lui diventerà premier» insiste da giorni. «Non è questo che mi preoccupa. Ma la Lega prenderà quasi tutti i collegi uninominali. Andrà così forte che i sovranisti neofascisti potrebbero avere la maggioranza assoluta senza Forza Italia, e formare un governo di estrema destra. Nel 2022 eleggeranno il presidente della Repubblica. Faranno leggi liberticide peggiori di quelle che abbiamo visto quest’anno. Sposteranno la nazione dall’asse europeista ed atlantico verso la Russia. Diventeremo un satellite di Putin, un membro di Visegrad. Dobbiamo evitarlo a ogni costo».

I timori sull’economia, l’esercizio provvisorio all’orizzonte, a necessità che un esecutivo dei responsabili eviti un aumento dell’Iva, temi con cui Renzi ha motivato il suo sì all’alleanza con i grillini («serve a un governo NoTax») sono reali. Ma il principale obiettivo dell’ex presidente del Consiglio, dei big del Pd e degli altri congiurati è uno, ed uno soltanto: modificare, attraverso il nuovo governo, il Rosatellum bis.

Una legge elettorale pasticciata, ideata e approvata dagli stessi renziani, che oggi consentirebbe a Salvini e soci (visto il mix di proporzionale puro e collegi uninominali che favoriscono le alleanze larghe) di conquistare la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera e al Senato anche con il 42 per cento dei voti.
È questo il motivo per cui Renzi ha aperto al taglio dei 345 parlamentari, la legge costituzionale che Di Maio vorrebbe far votare alla Camera in ultima lettura e che il Pd ha finora aspramente criticato. Una sua rapida approvazione non solo consentirebbe di prender tempo fino al necessario referendum confermativo. Ma il varo della norma costituzionale giustificherebbe anche l’ok a una nuova legge elettorale. Che Pd e M5S vorrebbero adesso basata su un proporzionale puro. «Noi restiamo fautori del maggioritario», questo il ragionamento dei renziani, «ma con il proporzionale la coalizione sovranista, finanche alle elezioni prendesse il 40-45 per cento per cento, non potrebbe più fare come gli pare». Dovrebbe infatti trovare alleati, sia per formare un esecutivo sia eleggere il successore di Sergio Mattarella. Fatta la nuova legge elettorale, il governo istituzionale potrebbe anche cadere, «perché il Paese sarebbe messo in sicurezza dal rischio di una sua “orbanizzazione”».

TE NE VAI SI’ O NO?
Non è tutto. Renzi, riuscisse nell’impresa, avrebbe in tasca una golden-share sul governo che verrà. Bisognerà accordarsi anche con lui per la scelta dei programmi, per la selezione dei ministri e dei sottosegretari. Il Giglio Magico potrebbe (ri)mettere bocca persino sulle nomine pubbliche, quelle previste per il 2020: i vertici delle grandi partecipate di Stato, da Eni all’Enel, fino a Leonardo e Poste Italiane, scadranno con l’approvazione del bilancio di quest’anno. È un fatto che i politici capaci di piazzare amministratori delegati, presidenti e consiglieri fedeli, si garantiranno sicure e durature rendite di posizione.

Con i gruppi parlamentari ancora sua fedele falange, non è detto che l’ex presidente del Consiglio non decida infine di restare nel Pd. Non per fare il senatore semplice, ovviamente. Ma per tentare di riconquistarlo: Matteo considera Zingaretti un leader debole e poco carismatico, e ha fiducia – se il governo istituzionale durasse il tempo necessario – di potergli fare le scarpe. Di riprendersi quello che era suo. Non per forza facendo il segretario politico, ma anche proponendosi come futuro candidato premier.

Se i calcoli dei renziani (e di tutti coloro che puntano su una nuova maggioranza) fossero invece errati, se l’alleanza con i grillini alla fine fosse una chimera, se le tante tessere non si riuscissero ad incastrarsi nel puzzle, il fiorentino ritornerebbe al piano “A”. Quello iniziale della scissione “consensuale”, da realizzarsi prima delle elezioni autunnali.

Al netto delle smentite e delle rassicurazioni, Renzi ha in testa un partito personale da quando ha lascito la segreteria del Pd. Il movimento ha già uomini e referenti in tutte le Regioni, simboli, pure accordi (sulla carta) con pezzi di Forza Italia che non vogliono finire tra le braccia di Salvini (come Mara Carfagna e la corrente moderata che fa ancora capo a Gianni Letta). Un blocco moderato che potrebbe rastrellare, secondo Pier Ferdinando Casini, oltre il 10 per cento delle preferenze.

Per i paradossi della storia, Renzi aveva deciso di accelerare il progetto scissionista poche ore prima che il Capitano scaricasse Giuseppe Conte e aprisse la crisi di governo. La mattina del fatidico 8 agosto Matteo aveva infatti fatto trapelare – attraverso un trafiletto sul Sole 24 Ore – i motivi per cui se ne sarebbe andato dal Pd, indicando anche il timing del lancio del partito.

Troppo grandi, faceva filtrare, erano le distanze tra lui e il gruppo dirigente scelto da Zingaretti. Sull’identità profonda del partito, sui programmi sociali ed economici, sulle nomine fatte in direzione: per il senatore semplice è indigeribile la cacciata del suo Davide Faraone dalla segreteria siciliana, o le promozione di Andrea Giorgis e Giuseppe Provenzano a responsabili delle riforme e del lavoro del partito (il primo votò No al referendum del 2016, il secondo è da sempre contrario al Jobs Act, considerato da Matteo uno dei fiori all’occhiello del suo premierato).

Inoltre Renzi non sopporta più personalmente i compagni di viaggio. Paolo Gentiloni, presidente del Pd, è considerato dai renziani alla stregua di un traditore. Renzi in persona lo ha attaccato sullo Ius Soli e sulle autonomia regionali. Marco Minniti, ex ministro dell’Interno, è stato crocifisso in paragrafi durissimi sul suo ultimo libro, “Un altra strada”, mentre i rapporti con il tesoriere Luigi Zanda sono ai minimi termini dopo gli scontri sulle mozioni sul Tav. «Ci sono due Pd», ha detto Carlo Calenda una settimana fa. «I leader di questi due Pd non si incontrano e non si parlano mai. Le classi dirigenti si detestano reciprocamente molto più di quanto avversino Lega e M5S. Renzi è incapace di lavorare in squadra se non come capo indiscusso, le idiosincrasie personali stanno facendo male a tutti. A lui e al centrosinistra».

Fallisse il tentativo di rientrare in campo, dunque, Azione civile (o come si chiamerà) potrebbe vedere la luce già a settembre. Alfieri del partito renziano i big toscani del solito Giglio Magico. Insieme ai due plenipotenziari dei comitati di “Azione Civile-Ritorno al futuro”, Ettore Rosato e Ivan Scalfarotto, che da mesi sta lavorando per aprire in tutta Italia quelle che appaiono come le sezioni del nuovo partito. A oggi sono circa un migliaio (circa diecimila gli aderenti) e tutte le sedi brillano per l’assenza di qualsiasi simbolo del Partito democratico. Lo scorso 12 luglio, alla prima convention dei Comitati, Renzi spiegò urbi et orbi (in prima fila Boschi, Bonifazi, Luigi Marattin e Roberto Giachetti) che lui avrebbe bocciato qualsiasi alleanza con i Cinque Stelle: «Se i grillini si stanno afflosciando lo dobbiamo a tanti di noi che hanno detto no all’accordo. Non ci dicano grazie, ma non ci provino più perché vecchi e nuovi notabili lo rifarebbero». Appena un mese fa: sembra un secolo. Seguirebbe il capo anche Sandro Gozi: ex parlamentare candidatosi senza successo alle europee in Francia, oggi è consulente personale del presidente transalpino Emmanuel Macron, leader di “En Marche!” a cui i renziani s’ispirano. Teresa Bellanova è una sicura colonna (sarà tra gli insegnanti di “Meritare l’Italia”, la scuola di formazione politica inventata sempre da Renzi un mese fa), insieme ad Andrea Marcucci, capogruppo del Pd al Senato e tra i proprietari delle residenze de “Il Ciocco”, un centro turistico sulle colline di Lucca dove tra pochi giorni si terrà il primo convegno delle Frattocchie del Giglio magico.

Marcucci potrebbe anche avere il compito di convincere a passare con Renzi il maggior numero di senatori possibili. Non sarà facile, perché non è detto che tutti i renziani abbandonino la nave del Pd. Lotti e Lorenzo Guerini, i leader della potente corrente Base riformista, potrebbero restare con Zingaretti: molto dipenderà dallo spazio che il segretario gli garantirà nelle liste elettorali. Se ne trovassero poco, Lotti raggiungerà Matteo. Sperando che il vecchio amico abbia davvero ritrovato il filo della matassa in cui si è cacciato dai tempi del referendum perduto.

L’ESPRESSO

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