Salvini e Renzi, i due Mattei. Anzi uno solo: allo specchio
Renzi e Salvini, i due Mattei, erano ragazzi con precoce passione
politica che andavano negli studi del Biscione a gareggiare nei mesi in
cui stava nascendo la Seconda Repubblica dopo il terremoto di
Tangentopoli. In una tv, scriveva Edmondo Berselli, «attratta dalla
convenzionalità moderna scandita dai piaceri e dalle trasgressioni
(sempre a un passo dal mutarsi in convenzioni) della civiltà di massa».
In quella tv berlusconiana, non apparivano come due futuri leader. Erano
due giovani conformisti, desiderosi più di apparire che di comandare.
Nessuno avrebbe potuto prevedere, all’epoca, che avrebbero dominato
l’Italia. E che in questa estate 2019 sarebbero diventati i duellanti
della Crisi che chiude una fase di transizione cominciata nell’autunno
2011, con la caduta del berlusconismo e la nascita del governo tecnico
di Mario Monti. I due Mattei, Salvini e Renzi, si propongono in questi
giorni come i capi alternativi. Salvini, con la mossa azzardata di
buttare giù il governo di Giuseppe Conte in piena estate, a cavallo di
Ferragosto, con un paio di comizi in spiaggia. Renzi, con la
spettacolare conversione che lo ha portato a diventare il principale
sostenitore di un rinvio delle elezioni anticipate e della nascita di un
governo con la stramba alleanza tra il Pd e i nemici di sempre, il
Movimento 5 Stelle. Salvini e Renzi si spacciano per opposti, ma sono
vite parallele. Simili per carattere, formazione, storia personale,
concezione della politica e del potere. Uno è stato un comunista padano,
l’altro un democristiano a sinistra. Sono stati eletti segretari del Pd
e della Lega nelle stesse ventiquattr’ore, con le elezioni primarie,
Renzi l’8 dicembre 2013, Salvini il giorno prima, uno ha rottamato la
vecchia sinistra, l’altro il fondatore Umberto Bossi. Erano balzati in
prima fila un anno prima, nel 2012, in un momento drammatico per i
partiti di origine. La Lega travolta dallo scandalo del tesoriere
Francesco Belsito e della famiglia del Senatur.
Il Pd di Pier Luigi Bersani incapace di approfittare del tramonto
berlusconiano. In quei mesi di deserto politico crescono due fenomeni
politici prima inesistenti, il Movimento 5 Stelle e la Leopolda del
giovane sindaco di Firenze. Più di nascosto, perché a governare la Lega
c’è per breve tempo Roberto Maroni, sale anche l’astro di Salvini. Il
partito del Vaffa, della Rottamazione e della Ruspa sono generati dalla
stessa tempesta. Ferocemente ostili tra di loro perché concorrenziali.
Uniti dall’avversione per riti e regole costituzionali, formalità
istituzionali, bilanciamento dei partiti, equilibri, pesi e contrappesi.
Politici in nome dell’anti-politica. Sono Ruspa e Rottamazione, Salvini
e Renzi sono i leader della Distruzione, più che della costruzione.
Coltivano il culto dell’esecuzione, della fretta, dei rapporti di forza.
E si ritrovano insieme, sia pure su sponde dichiaratamente opposte, e
chissà quanto a loro agio, a dettare i tempi e a guidare le movenze
della grande crisi politica dell’estate 2019.
Crisi di sistema, e non solo di governo. Crisi che scompiglia le
alleanze, riscrive la geografia, le mappe di quel territorio scosceso e
rugoso (come scrive Fabrizio Barca a pagina 68) che è il paesaggio
italiano ma anche la politica che lo rappresenta e lo incarna. Nel giro
di un pugno di ore, Salvini ha scaricato il partner di governo Di Maio e
ha resuscitato il padrone delle tv che lo videro esordiente,
Berlusconi. Nelle stesse ore, Renzi a sua volta ha provato a sollevare
il Movimento 5 Stelle dalla tomba politica in cui si è cacciato, a costo
di farci cadere il partito che ha guidato per più di quattro anni, il
Pd, e il suo attuale segretario Zingaretti.
Il primo dice che non c’è più un giorno da perdere, c’è fretta di fare
le cose che servono agli italiani e il governo di Giuseppe Conte appare
paralizzato nel farle: curioso argomento, per uno che sta passando in
rassegna tutte le spiagge italiane vantando di aver portato a casa la
quota 100 sulle pensioni, il crollo degli sbarchi, la difesa
dall’invasione dei migranti, la legittima difesa, il decreto sicurezza
uno, il decreto sicurezza bis, la riduzione del numero dei parlamentari
sepolta e poi riesumata quando il leader leghista si è accorto che in
Parlamento si stava formando una maggioranza alternativa. Il secondo,
specularmente, giura di voler mettere da parte «per il bene del Paese»
le tensioni e la violenza degli scontri che hanno segnato il suo
rapporto con i 5 Stelle, fino a passare sopra alle offese e agli insulti
nei confronti dei genitori. Nelle ore decisive si è spogliato dei panni
del leader di parte e si è riproposto in una veste inedita: l’ex
presidente del Consiglio, l’uomo delle istituzioni, che si appella «a
tutte le forze politiche» per mettere su un nuovo governo, per
scongiurare il taglio dell’Iva, e poi il dissesto idrogeologico,
promuovere l’economia circolare. In parallelo, il ministro dell’Interno,
chiamato già “presidente” dalla seconda carica dello Stato, Elisabetta
Casellati, si propone come il demiurgo della fase che verrà. L’immagine è
al tempo stesso multicolore, confusa, spiazzante. Salvini e Renzi si
propongono come i tessitori di una nuova fase, gli innovatori che
cambieranno il cambiamento. Ma agiscono, entrambi, nel segno di una
categoria antica e di una malattia nuova.
La categoria antica ha un nome preciso, si chiama trasformismo. Il
governo del Cambiamento Lega-M5S conclude la sua corsa riportando
l’Italia all’indietro di quasi 140 anni. Al trasformismo della sinistra
storica di Agostino Depretis, di Giovanni Giolitti, a quella che è stata
la vera cifra della modernizzazione italiana, il trasformismo come
strada per reagire a un ritardo storico, ieri era la costruzione dello
Stato unitario, oggi la ricostruzione di uno Stato che non c’è più, come
aveva intuito Giulio Bollati in L’Italiano (Einaudi, 1983): «Il
trasformismo porta innanzitutto a togliere il mantello dei grandi
principi ai traffici e alle spartizioni: e la visione è quella di un
ritorno allo stato ferino dominato dagli egoismi. Le varie opzioni
etico-politiche diventano improvvisazioni fungibili e differenti. Il
pragmatismo, comunque si cerchi di vestirlo, si pone sfacciatamente come
la giustificazione di se stesso. Distanza tra i propositi dichiarati e i
comportamenti effettivi, abilità nel far propri temi e parole
dell’avversario per svuotarli di contenuto, disponibilità a lasciarsi
catturare, contrasti in pubblico e accordi in corridoio. Il trasformismo
è apparenza, spettacolo, indifferenza al merito delle questioni. Il suo
scopo è il potere in quanto tale».
Nella storia italiana, unitaria e repubblicana, il trasformismo si è
risolto nell’impossibilità di una competizione tra schieramenti
alternativi. Nel culto della stabilità governativa prima di ogni altra
cosa: l’immobilismo come arte, sullo sfondo di classi dirigenti e di un
popolo che non hanno mai davvero creduto ai cambiamenti reali, quelli
che richiedono responsabilità, ma che amano invece inseguire quelli
declamati, scenografici. Cosa c’era di più scenografico della
rottamazione di Renzi che non cambiava in profondità i comportamenti, ma
si limitava a sostituire un gruppo di potere all’altro? E chi è più
trasformista di Salvini, che è passato senza fare una piega dalla
secessione al sovranismo, da prima i padani a prima gli italiani?
Dal vecchio Partito della Nazione di Matteo Renzi al nuovo Partito dei
Nazionalisti di Matteo Salvini c’è poca distanza. Oggi il trasformismo
di Salvini lo spinge a lasciare M5S e a recuperare il vecchio
centro-destra, riportando in auge Berlusconi, nonostante a livello
europeo si sia appena consumata la rottura più sanguinosa tra i popolari
di Angela Merkel, di cui Forza Italia fa parte e il Cavaliere è
euro-parlamentare, e la Lega, tenuta alla larga da ogni trattativa e dal
voto per la nuova Commissione Ue presieduta da Ursula von der Leyen. E
il trasformismo di Renzi lo porta a mettere in stress il Pd, come un
aereo cui si spengono i motori in decollo, un giorno minacciando a mezzo
stampa la scissione, il giorno dopo candidandosi a fare da tessitore di
un nuovo governo con gli odiatissimi post-grillini. Un’operazione resa
possibile, almeno nelle ipotesi, dal terzo trasformismo, quello del
Movimento 5 Stelle, che prova ad adattarsi al ruolo di nuova Palude
parlamentare, il corpaccione centrale amorfo e privo di cultura politica
pronto a tutto pur di restare determinante o, almeno, a sopravvivere.
Apparenza, spettacolo, indifferenza al merito delle questioni. Era il
segno di partenza della nuova legislatura eletta il 4 marzo 2018, quando
Luigi Di Maio trattò allo stesso tempo con Salvini e con Renzi: con
l’ex premier e ex sindaco di Firenze l’abbocco andò avanti al punto che
il capo politico M5S mostrò in anticipo il testo dell’articolo che
avrebbe spedito al “Corriere della Sera” (pubblicato il 29 aprile 2018)
per aprire al dialogo con il Pd e da partenze renziana gli fu restituito
con qualche correzione. Poi, la sera stessa, Renzi andò in tv da Fabio
Fazio e distrusse la tela che aveva filato. «Quando si arrivò
all’accordo mi avrebbero dato la poltrona», si è lasciato scappare l’ex
premier nella conferenza stampa del 13 agosto. Ora la legislatura svolta
sullo stesso vizio della politica di sempre. Ma c’è una malattia nuova:
accanto al trasformismo dei capi c’è il trasformismo dell’eterno
oggetto del desiderio di chi fa politica: il popolo. Nel giro di pochi
anni i cittadini italiani hanno votato in massa prima per il Pd di
Renzi, poi per il Movimento 5 Stelle, poi per la Lega di Salvini. Una
mobilità senza precedenti, milioni e milioni di voti senza casa politica
pronti a spostarsi di qua e di là, che non testimonia soltanto la
presenza di un vastissimo elettorato di opinione, di volta in volta
pronto a cambiare il suo voto per premiare l’offerta più soddisfacente,
come avviene nelle democrazie mature, ma è anche la spia di una nevrosi,
di una fragilità del sistema, di un tessuto sociale privo di difese.
Una società dove è impossibile consolidare un consenso e governare
perché sottoposta sempre a proclami di cambiamento, negazione del ruolo
dell’avversario, demonizzazione della politica.
Per il Pd e per la sinistra sarebbe una grande occasione da cogliere:
dare una risposta al sistema nervoso impazzito con una leadership
collettiva, tranquillizzate, ma forte, presente laddove ci sono zone di
sofferenza materiale o immateriale. Doveva essere questa la scommessa
della nuova segreteria di Zingaretti, che però fatica a vedere la luce.
Nel frattempo, l’instabilità e la vulnerabilità di un pezzo importante
di cittadinanza sono il presupposto della crescita della destra in tutto
l’Occidente, dagli Stati Uniti di Donald Trump all’Inghilterra di Boris
Johnson. Non è soltanto la voglia dell’uomo forte al comando, come
spesso si ripete. In una società frastagliata e con una politica senza
orizzonte, progetto, cultura di riferimento vince chi sa meglio surfare,
cogliere l’onda giusta, buttarsi a sinistra e scartare a destra,
accumulare identità multiple, pronte a essere estratte per l’uso.
Il vecchio trasformismo frequentava le stanze fumose, si compiva in un
abbraccio parlamentare, a volte all’ombra del voto segreto. Il nuovo
trasformismo si vanta di parlare in nome del popolo, si nutre di social e
di verità assolute da scagliare nella rete tra seguaci e tifoserie,
salvo poi aderire al messaggio opposto che dovrà essere difeso e
propagandato dai follower con identico ardore. Ma così è tutta la
democrazia che finisce sotto tensione, perché nulla è più affidabile e
credibile. E i più colpiti sono quei partiti e quei leader che nella
politica affermano di credere.
Nei prossimi giorni dovrà farsi sentire quel che resta dell’area democratica di questo Paese, non solo quella che si agita nel Palazzo, ma la società civile che si è ritrovata nell’accoglienza dei migranti, nel no alle leggi disumane e al loro regista che siede al Viminale, le associazioni, i sindacati, gli intellettuali, ma anche gli amministratori locali, a partire dai sindaci. Toccherà a questi mondi vitali, che la nuova politica vorrebbe inerti, indicare la strada molto stretta di un pericoloso cambio di maggioranza parlamentare, verso un governo Pd-M5S: senza radici nel Paese sarebbe soltanto un’operazione di Palazzo, rischiosa e asfissiante, se restasse come l’ha immaginata il Matteo ex rottamatore. Oppure prepararsi alla mobilitazione elettorale per un’alternativa al Matteo della Ruspa, che proprio in questa occasione si è rivelato abile tattico, ma incerto stratega, ritrovandosi nelle sabbie mobili. Quell’elettorato senza casa e senza rappresentanza merita qualcosa di più di un appello, ingentilito o no, di aspiranti capi, statisti soltanto immaginari.
L’ESPRESSO
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