M5S e nuovo governo, i due fronti aperti. E spunta l’idea «senza Salvini»

Tra gli ultimi contatti e il discorso di Conte in Senato di oggi pomeriggio c’è una notte di mezzo. Notte in cui idealmente fondono pizze fredde e calzoni, sogni, lacrime e preghiere, come nella canzone di Antonello Venditti. Dario Franceschini e Vincenzo Spadafora, che un tempo militavano da «avversari» nello stesso partito (l’uno popolare e l’altro rutelliano, il partito era la Margherita) e oggi trattano da «amici» tentando di avvicinare due mondi diversi, si sentono più volte al giorno. Forse si vedono anche. L’ex ministro del Pd e il sottosegretario a Palazzo Chigi, oggi più vicino a Conte che a Luigi Di Maio, sminano il terreno dalle insidie dell’ultim’ora. Che non mancano.

Quella principale, appunto, è il ruolo di Di Maio. Il capo politico del M5S fatica a rassegnarsi al corso degli eventi. Certo, s’è incaricato lui di mettere a verbale la fine dell’«amicizia» con Salvini; ma un passaggio del suo intervento all’assemblea dei gruppi – «Non apriamo né chiudiamo a nessuno» – ha fatto insospettire tutti. E se convincesse Salvini a dimettersi, in cambio di un nuovo contratto con la Lega? Dentro il Movimento, il vicepremier si trova ormai dall’altra parte della barricata occupata da Davide Casaleggio e Beppe Grillo. Raccontano fonti di primissimo livello del M5S che quest’ultimo, nel vertice ospitato l’altro ieri a casa sua, l’abbia affrontato a brutto muso. «Ah, Luigi, tu sei quello che vuole andare al voto, ho capito bene? Forse non ti è chiaro che se si va al voto oggi, domani, tra sei mesi o tra sei anni, il Movimento è morto. Ed è morto anche perché non sei stato in grado di guidarlo». Parole come pietre, che facevano pendant con un sondaggio riservato che fissa tra il 7 e l’8 per cento lo score del M5S in caso di elezioni anticipate.

Un tempo la fatwa di Grillo avrebbe chiuso i giochi. Oggi, però, in un passaggio così delicato, dal Movimento chiedono al Pd un’exit strategy per il loro capo politico. «Ci hanno chiesto di accettare che Di Maio faccia il ministro dell’Interno nel nuovo governo», sussurra a denti stretti un pezzo da novanta del Pd che ha raccolto la sollecitazione degli ambasciatori dell’altro fronte. Di Maio al posto di Salvini, insomma, come prezzo per entrare nella nuova fase.

Il puzzle viene composto e ricomposto più volte. La parte più agevole sarà quella che riguarderà l’individuazione del premier. Perché il tasto verrà toccato se, e soltanto se, la nuova maggioranza dovesse decollare. Tutto dipenderà dal discorso che Conte terrà oggi in Senato. Casaleggio e Grillo premono perché i ponti con Salvini e con la Lega vengano abbattuti definitivamente. Alle 11 di ieri mattina, quelli del M5S che sono riusciti a mettersi in contato con gli uffici dell’inquilino di Palazzo Chigi tranquillizzano sia il fondatore dell’Associazione Rousseau che il garante, tifosi sfegatati dell’accordo col Pd. Dal racconto che viene fatto di quello che c’è negli appunti di Conte spunta «non tanto il discorso di un premier dimissionario». Quanto, raccontano più fonti, «una vera e propria requisitoria politica che ha come unico bersaglio il “traditore” Salvini». Nessun’altra indicazione verrà data nel corso della giornata.

Poi però ci sarà stata la notte. E ci sarà la mattinata di martedì, dove può succedere tutto e il suo contrario. Il premier sa di avere delle carte da giocare anche nel caso in cui la maggioranza cambi segno, vista la non ostilità di parte del Pd nei suoi confronti. «Non aspettatevi tempi brevi», predicano prudenza tra i Democratici. È possibile che il primo round esplorativo, nel caso in cui cada il governo, riparta dal tandem Lega-M5S. Ma di fronte a un ritorno in auge del patto coi salviniani, i grillini ortodossi del Senato, a cominciare da Nicola Morra, sono già pronti a sbarrargli la strada.

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