Crisi di governo, la linea del Quirinale: governo vero o elezioni
Il risultato del confronto era chiarissimo, per Sergio Mattarella: quello
del capo del governo è stato il passo d’addio di chi salutava un’esperienza personale, intonando, al tempo stesso, il de profundis del governo gialloverde. Così, ha accolto l’inquilino di Palazzo Chigi, presentatosi dimissionario al Quirinale all’ora di cena, con un «ho visto tutto… grazie per l’impegno profuso, auguri» e pochi altri convenevoli. È andata come immaginava, insomma, la resa dei conti tra gli azionisti dell’esecutivo populista-sovranista che avrebbe dovuto inaugurare la «legislatura del cambiamento» e che ha invece regnato appena 18 mesi. Un esito, e un congedo, ufficializzati in serata dal segretario generale, Ugo Zampetti, che riferiva l’invito presidenziale a Conte per «curare il disbrigo degli affari correnti».
Da adesso tocca a Mattarella guidare l’uscita dalla crisi. Comincerà a farlo fin da oggi, aprendo sul Colle un rapido giro di consultazioni, sentendo in un paio di giorni il suo predecessore Giorgio Napolitano, i presidenti di Senato e Camera e le delegazioni delle forze politiche. Un consulto delicato, anche perché nello smarrimento generale tutti ora dichiarano di affidarsi a lui, «arbitro saggio, serio e imparziale». Definizioni ricorrenti, nelle quali c’è però un errore di fondo per questo capo dello Stato. Infatti, la responsabilità di trovare uno sbocco alternativo al voto d’autunno, indicando nuove maggioranze e intese politiche, spetterà ai partiti e soltanto ad essi. Certo, Mattarella preferirebbe una soluzione di nuova stabilità al rebus delle urne, se non altro perché c’è da mettere in sicurezza l’economia nazionale alla vigilia di scadenze decisive, che richiederebbero scelte fortemente politiche. Ma non orienterà in alcun modo gli attori della partita.
Perciò, naufragata la possibilità di una riedizione del governo tra 5 Stelle e Lega, che si sono messi fuori gioco da soli, non gli resta che verificare il perimetro — cioè i numeri — dell’ipotetica alleanza prospettata (con diverse variabili, compresa la «formazione Ursula» vagheggiata da Prodi) tra democratici e grillini. Potrebbe essere l’unica carta per non sciogliere le Camere. E potrebbe prendere corpo, sia pure in forma ancora piuttosto vaga, nelle prossime ore. Probabilmente ai potenziali partner giallorossi sarebbe necessario qualche giorno di decantazione e di approfondimenti, se davvero volessero esplorare questa strada, per mettere a fuoco un contratto di programma e relative strategie. Il capo dello Stato concederà un supplemento temporale per i negoziati, purché gli venga esplicitamente chiesto. Ma non sarebbe questione di settimane, per lui, quanto di giorni. Trascorsi i quali non potrà che far scattare il tutti a casa, rassegnandosi al voto. Al quale non potrebbe portarci questo esecutivo dimissionario, ma un governo di garanzia elettorale insediato personalmente da Quirinale.
Una mossa obbligata, che non ci sarebbe neppur bisogno di spiegare. Non a caso Matteo Salvini, ministro dell’Interno (che per prassi dovrebbe custodire la macchina elettorale), si candida a premier. Per di più minacciando già di convocare le piazze se nascesse un nuovo governo. Assurdo immaginare che resti al Viminale.
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