Un esame di serietà (per tutti)

D’altra parte un governo serve. Questi sono tempi in cui va molto di moda appellarsi al popolo, individuarlo come il giudice supremo della contesa politica in democrazia. È giusto. Ma ci sono due casi in cui il popolo rischia di perdere la sua sovranità. Quando non lo fanno votare mai e quando lo chiamano a votare troppo spesso. Purtroppo la storia europea è densa di casi in cui questo è accaduto. La volontà popolare deve essere infatti interpretata per poter essere rispettata. Nelle elezioni italiane del 1921 furono eletti 35 deputati fascisti contro 123 socialisti e 108 popolari, ma poi furono i fascisti ad andare al potere: che cosa voleva, in quel caso, il popolo?

Un governo serve anche per mettere ordine su due materie di estrema delicatezza per un grande Paese come l’Italia. La prima è l’equilibrio liberale dei poteri: esso richiede che non siano «pieni» per nessuno, perché «il potere assoluto corrompe assolutamente», secondo la celebra massima di Montesquieu. La seconda questione è l’appartenenza all’Ue e alla moneta unica, perché nessun governo ha il potere di mettere in discussione, neanche incidentalmente, questi due ancoraggi internazionali cui si è impegnata con trattati vincolanti l’intera comunità nazionale. Tutto il resto è politica. Si può amare o odiare Ursula von der Leyen, volere più integrazione europea o più sovranità nazionale, puntare ad aumentare il debito pubblico o a ridurlo, ma entro questi paletti.

Purtroppo l’anno che ci lasciamo alle spalle ha invece aperto ferite e creato ambiguità su entrambi i fronti. Come ogni governo, anche quello giallo-verde ha fatto ovviamente cose buone; e anzi, a giudicare dai sondaggi che l’hanno accompagnato fino alla fine, gradite dall’opinione pubblica. Ciò nonostante non ha retto alla prova dei fatti, e non ha retto di fronte alla congiuntura economica. Questa lezione, che cioè la somma delle misure popolari non fa necessariamente il bene del popolo, è stata appresa? O siamo destinati a un contratto-bis in cui, con qualche escamotage lessicale, si può scrivere tutto e il contrario di tutto? È essenziale che chi si candidi oggi a intraprendere una strada nuova, magari avendo già percorso quella vecchia come i Cinquestelle, non commetta lo stesso errore. Altrimenti si darebbe ragione a Salvini, che già agita la vecchia accusa del «ribaltone» contro coloro con cui aveva realizzato il suo ribaltone un anno fa, quando mollò il centrodestra.

Oggi i partiti sfileranno di fronte a Mattarella. In questi giorni abbiamo ascoltato da loro molte sgrammaticature, tipo la frasetta-slogan che dice «deciderà il presidente». Ma il presidente, nel nostro ordinamento, non decide, sceglie. Conferisce un mandato, non se lo inventa. Può mandare un governo davanti alle Camere nella ragionevole speranza che abbia la fiducia, perché così gli hanno garantito i partiti che si propongono di formarlo. Ma poi decide il parlamento. Quanto più i partiti vogliono aiutare il compito di Mattarella, dunque, tanto più devono dirgli con chiarezza e senza ipocrisie che cosa sono disposti a fare e con quali numeri reali. Dalle elezioni europee a oggi abbiamo vissuto nel frastuono e nella confusione più assoluti, momenti alla Ionesco in cui non si capiva più chi era al governo e chi all’opposizione, chi si sentiva in Europa e chi andava in Russia, chi puntava alla crescita e chi alla decrescita. Da oggi, dobbiamo augurarci, la ricreazione è finita. Il prossimo governo, se ce ne sarà uno in questa legislatura, deve perciò rispondere a un requisito molto semplice: essere più serio del precedente.

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