Governo, dal Pd mossa sul «bis» e condizioni per la squadra I sospetti su Di Maio

Pontieri all’opera

Quando si sentono prima di pranzo, Zingaretti e Di Maio sono ancora separati dallo scoglio più importante di tutta la trattativa. Il vicepremier uscente insiste su Conte premier, il segretario del Pd risponde picche. È il momento della giornata in cui il capo politico del M5S scomparirà dalla scena per non riapparire, fino a notte fonda, mai più. Riappaiono, però, i tanti pontieri pentastellati che si muovono anche su impulso di Davide Casaleggio e Beppe Grillo. Un filo rosso li lega dall’inizio della crisi, soprattutto il comico genovese, all’ala emiliana del Pd che a vario titolo proviene dal mondo del cattolicesimo popolare. Sono in tanti a intravedere un filo invisibile che collega il Garante ora a Dario Franceschini, ora a Graziano Delrio, ora addirittura a Romano Prodi. Ma quelle che sembrano leggende metropolitane hanno una ricaduta pratica quando tutti si ritrovano virtualmente sul locomotore del treno della crisi che spinge verso una stazione: Giuseppe Conte di nuovo a Palazzo Chigi.

Di Maio non cede

A questo punto, è la lettura che ne daranno a notte fonda alcuni big del Pd, il cerchio si stringe. Restano da convincere Di Maio, incastrato dal fatto che «Conte premier» è formalmente diventata la sua, di condizione irrinunciabile; e Zingaretti, che invece insiste per marcare una discontinuità netta, tenendo più di un occhio alla soluzione delle elezioni anticipate. La prima missione resterà incompiuta; la seconda, invece, va in porto. Pierluigi Castagnetti, colonna storica del Ppi, cattolico-popolare emiliano, dà il segnale su Twitter con una metafora storica: «Nel ’76 Berlinguer, che avrebbe preferito Moro, accettò Andreotti. Perché riteneva che fossero i programmi, e non le persone, il terreno e lo strumento della discontinuità».

Le condizioni che arrivano sul tavolo di Zingaretti sono talmente significative che hanno bisogno di una verifica. Al Pd andrebbero i due ministeri economici (Economia e Sviluppo economico, a cui il segretario sogna di mandare i fedelissimi Antonio Misiani e Paola de Micheli), la Giustizia (Andrea Orlando), oltre alle Politiche giovanili (il presidente dell’Agesci Francesco Scoppola). Più la garanzia che il Viminale rimarrà fuori dall’orbita dei Cinque Stelle: Franco Gabrielli oppure, in subordine, il renziano Emanuele Fiano. In cambio il segretario del Pd è pronto a non mettere veti sulla riconferma di Elisabetta Trenta (Difesa), Sergio Costa (Ambiente), forse addirittura Giulia Grillo (Salute) e anche Di Maio. «Ma a patto che non abbia un ministero di prima fascia. Altrimenti torniamo alla copia carbone del governo precedente», dicono i suoi.

I contatti interrotti

Il puzzle sembra completo. Ma il disegnino sembra anche troppo perfetto per questa schizofrenica crisi di governo. I segnali che qualcosa possa andare ancora storto sono tanti, tantissimi, troppi. «Ho bisogno di incontrare Di Maio domani», fa sapere Zingaretti al fronte Cinque Stelle. La risposta? Nessuna. Il vicepremier sembra inghiottito dal nulla, si aspettano segnali che non arriveranno mai. Almeno fino a tarda notte. Una notte che parte all’insegna di una certezza, e cioè che il veto del Pd su Conte può davvero essere superato «a certe condizioni». Una notte piena di sospetti, come le altre: «E se Di Maio questo governo non lo volesse più fare?».

CORRIERE.IT

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