Una sfida per tutti nel segno della necessità
Se alla fine nascerà, il governo sarà ovviamente fragile. Le due forze politiche, sommate, oggi non rappresentano la maggioranza del Paese. E questo sopratutto a causa del declino dei Cinquestelle, che escono con le ossa rotte dal rapporto con la Lega ma ciò nonostante non rinunciano a fare la voce grossa con il nuovo alleato, con il quale tentano di replicare lo schema precedente: chissà perché, visti i risultati. Ma è fragile anche il Pd. Il destino lo chiama ancora una volta a partecipare a un governo senza aver vinto le elezioni. Accade nei regimi parlamentari. Salvini aveva preso anche meno voti del Pd nel 2018, eppure è andato al Viminale. Il problema è se lo si fa bene o male. Se è per i ministeri che il Pd fa il governo, finirà col pagarla cara. Sarà invece capace di mettere in campo una classe dirigente larga e all’altezza del compito? I nomi di partito che girano in queste ore non lo sembrano. Ma per fortuna i decreti di nomina dei ministri alla fine li firma il Capo dello Stato.
Se comprenderà che si apre una fase del tutto nuova, un punto di forza potrebbe invece diventare il premier. Conte sta per trovarsi nella rara condizione di fare il bis a maggioranza invertita. Ma lo schema dell’«avvocato del popolo», del non-politico che si mette super partes e media tra i due vice, non è replicabile. Non foss’altro perché i capi dei due partiti stavolta non saranno nel governo, Di Maio perché non lo é più, dovunque andrà, e Zingaretti perché non lo è ancora, e resterà fuori. Ecco perché l’ipotesi Di Maio vice premier è l’ultimo pomo della discordia sulla via dell’accordo. Oggi Conte, anche per gli elettori, è il vero leader dei Cinquestelle. Se guiderà il governo in questa veste, invece che come mediatore tra volontà altrui, l’esecutivo se ne gioverà. Del resto anche il M5S ne ha bisogno, per uscire dalla sua lunga fase infantile.
Insomma, i due partiti devono fare di necessità virtù. Devono dimostrare nei fatti che non si mettono insieme solo per negare le elezioni anticipate a Salvini. Altrimenti falliranno in pochi mesi, una volta scampato il pericolo, e Salvini le elezioni finirà per averle comunque e per vincerle anche più facilmente, capitalizzando il loro insuccesso. Soprattutto devono convincere gli italiani che tutti i giuramenti di queste ore sul «bene del Paese» non sono solo vuota retorica, come quella che si sprecò quindici mesi fa, ma invece l’inizio di un ravvedimento operoso, di una stagione di serietà e di impegno, di molta responsabilità e poche chiacchiere. Finora non abbiamo ancora sentito parlare di deficit, di manovra, di tasse, di occupazione, dei rischi di stagnazione e delle speranze di ripresa. Se vogliono fare un governo, prima o poi dovranno occuparsene.
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